Una vita da feuilleton
Sicilia, al tempo degli Angioini e degli Aragonesi.
Una donna di umili origini riesce a sposarsi con un nobile e a diventare una ricca baronessa. Abile nelle armi, usa a indossare abiti maschili e a tenere un comportamento anticonformista e disinvolto, abbandonato il marito in punto di morte, dopo avere vagato tra Messina e Napoli travestita da frate minore, ritorna in Sicilia e contrae un nuovo matrimonio con un uomo ancora più potente e ricco, vicino alla corte del re Pietro d’Aragona. Con spregiudicatezza e abilità cerca di sedurre il re e, al suo rifiuto, organizza una congiura per spodestarlo e ucciderlo.
Scoperta, viene reclusa in un castello dove, mantenendo bellezza ed eleganza, finisce la sua vita giocando a scacchi con un emiro, anch’egli prigioniero politico, divenendo la prima scacchista della storia siciliana, lasciando dietro di sé un’eco di leggenda e curiosità.
Questa storia non è la fantasiosa trama di un romanzo d’appendice, frutto d’invenzione e ricco di avvincenti colpi di scena, ma ripercorre invece le tappe principali della straordinaria vita della siciliana Macalda di Scaletta, baronessa di Ficarra, figura affascinante e controversa, condannata dalla sua esuberante personalità e dall’aver vissuto in maniera ribelle e fuori dagli schemi all’oblio e perfino alla damnatio memoriae da parte della storiografia coeva e successiva.
Le origini della fortuna di Macalda
Scaletta Zanclea è un piccolo centro della Città metropolitana di Messina, rivolto ad oriente verso lo Stretto e dominato dalla mole erta e squadrata del castello del principe Rufo Ruffo, donato dai discendenti al Comune nel 1969. La sua storia ci è raccontata dallo storico palermitano Francesco San Martino De Spucches nella Storia dei Feudi e dei Titoli Nobiliari in Sicilia, nel capitolo dedicato ai Principi di Scaletta (vol. VII), dove si legge che il castello era «custodito da Matteo soprannominato il Selvaggio per conto della Regia Corte. Federico II Imperatore glielo concesse […] nel 1220. Giovanni di Scaletta successe alla morte di Matteo suddetto; sposò una nobile siciliana di casa Cotono; da lui nacquero Matteo e Macalda. Macalda aveva sposato Guglielmo D’Amico, Signore di Ficarra; costui fu spogliato dei beni da Corrado I, Imperatore e Re di Sicilia. All’epoca angioina nulla sappiamo dei possessori di Scaletta; sappiamo che Macalda da Carlo d’Angiò riebbe lo Stato di Ficarra, già del marito. Sappiamo che in quest'epoca sposò Alaimo da Lentini molto accetto a d’Angiò; quale Alaimo, cambiando pensieri, fu uno dei capi della congiura che si epilogò con il famoso Vespro Siciliano. Ai tempi del Re Pietro, l’Alaimo fu eletto Maestro Giustiziere del Regno, Governatore di Messina, custode della famiglia Reale durante l’assenza del Re, che era partito per Bordeaux onde prendere parte al duello con 100 cavalieri contro altrettanti comandati da Carlo d’Angiò».
Una social climber
A dispetto dei suoi bassi natali, dunque, Macalda, inizialmente dama di compagnia e cortigiana, dopo avere sposato giovanissima Guglielmo de Amicis, di tradizione guelfa, con il ritorno degli Svevi perde il recuperato feudo di Ficarra sui Nebrodi e, abbandonato in fin di vita il marito, va via, viaggiando da Messina a Napoli travestita da frate francescano.
Con l’arrivo in Sicilia degli Angioini, Macalda ritorna; recupera Ficarra e contrae un secondo matrimonio con Alaimo da Lentini, personaggio molto in auge nella corte dei D’Angiò. Quando nel 1282 esplode il Vespro, Alaimo diventa capo della difesa militare e protegge Messina contro l'assedio angioino, lasciando Macalda a governare con piglio fermo Catania.
Con gli Aragonesi, Macalda ricorre ad un nuovo travestitismo ed all’uso del fascino dell’armatura per sedurre a Randazzo re Pietro, diventarne la “favorita” e sostituirsi alla madre, la regina Costanza, nella “tutela” e nell’educazione dell’infante Giacomo, erede designato del Regno di Sicilia. Questa ascesa da una condizione povera e subalterna alle alte sfere del potere contribuisce a creare un alone d’interesse e sospetto intorno a Macalda, alimentato anche dai suoi atteggiamenti anticonformisti e provocatori.
Due sono le principali cronache coeve che ce ne danno testimonianza, sia pure con accenti diversi. Il messinese Bartolomeo di Neocastro, nella Historia Sicula, traccia di Macalda un ritratto a tinte fosche, dipingendola come cinica e dissoluta, senza scrupoli, incline al tradimento umano e politico, spudorata, sessualmente sfrenata e promiscua. Il cronista catalano Bernat D’escolt, invece, pur essendo aragonese come Bartolomeo di Neocastro, nella sua Crònica del Rey en Pere, la definisce «molto bella e gentile, e valente nel cuore e nel corpo; larga nel donare, e, quando n’era luogo e tempo, valida nell’arme al par d’un cavaliero», giustificandone l’atteggiamento seduttivo verso il re poiché ella «ne rimase innamorata come di colui che era valente e aggraziato signore, non già per cattiva intenzione».
Il declino di Macalda
Tornato Pietro III in Catalogna, Alaimo è chiamato a Barcellona e coperto di onori per la sua strenua difesa di Messina, ma la morte del Sovrano (11 dicembre 1285) e la successione al trono di Sicilia di Giacomo II, ne sanciscono la definitiva condanna, sua e della moglie Macalda. I loro beni vengono sequestrati, i sostenitori dispersi, lei stessa messa in prigione, il fratello decapitato; Alaimo, coinvolto in una congiura, per ordine di Giacomo è rinchiuso in un sacco zavorrato e gettato in mare ancora vivo al largo di Favignana (2 giugno 1287).
Secondo le fonti, Macalda non aveva mai perdonato a re Pietro d’aver respinto le sue profferte amorose ed inoltre era furiosamente gelosa della regina Costanza. Perciò avrebbe indotto il marito a non frequentare più la corte, fino a suggerirgli il tradimento.
Infine, arrestata e imprigionata nel castello di Matagrifone (detto rocca Guelfonia) di Messina, la cui ultima torre svetta ancora oggi sotto il Sacrario di Cristo Re, Macalda si spegne tra le cupe mura del castello ma, diversamente da quanto ritenuto da Michele Amari, «ben lungi dal morire di crepacuore», muore a settant’anni e «vent’anni dopo la morte del marito era ancora viva e vegeta, proprietaria di un palazzo a Messina e in rapporti d'affari con i futuri padroni di mezza Sicilia, i Chiaromonte» (Sciascia, 2006: 176).
Di certo, fra le molte intemperanze e stranezze di Macalda, quelle relative ai falliti tentativi di concupire il re sono le più note e chiacchierate, anche perché alla sua sfrontatezza non corrisponde un atteggiamento ostile né da parte di Pietro né da parte di Costanza i quali, al contrario, cercano di non inasprirne l’animo, probabilmente per opportunismo. Macalda vestita «di porpora e d'oro, indossa l'armatura, esibisce le sue tardive gravidanze in luoghi sacri, non esita a molestare sessualmente principi e sovrani. Si presenta a Pietro III, a Randazzo, e cerca di sedurlo con il suo ambiguo fascino androgino, messo in risalto dall’armatura; accompagna l’infante Giacomo in tutta l’isola, con piglio virile e arrogante; non nasconde la sua polemica gelosia nei confronti della regina Costanza, che chiama solo “madre di Giacomo”» (Sciascia, 2006: 176). Tali episodi creano grande clamore nell'ambiente di corte e mettono a dura prova anche la proverbiale pazienza e benignità della regina, alimentando pettegolezzi e facendo fiorire aneddoti.
La moderna storiografia ritiene che il vero intento dell’abile Macalda fosse quello di divenire la favorita del sovrano per poterne influenzare l’azione politica, rappresentando le istanze dei nobili siciliani di tradizione guelfa che si erano espressi nella Communitas Siciliae e rigettavano sia la monarchia degli Hohenstaufen che quella di Carlo d’Angiò.
L’epica delle sue gesta
Macalda è riuscita, con le sue arti, con la sua abilità di cortigiana e con il suo saper essere, come diremmo oggi, "personaggio", a essere protagonista, a divenire persino baronessa, districandosi nel rigido ambiente nobiliare del tardo Medioevo, avviando una fenomenale promozione sociale e personale che la porta addirittura a pensare di diventare la favorita di re Pietro d'Aragona.
Ma dietro c’è molto di più: c’è la spessa ombra del marito Alaimo da Lentini, personalità di grande rilievo, d’ispirazione guelfa, che, allo scoppiare della guerra del Vespro, si schiera per l’indipendenza dell’isola e per la protezione del Papa Martino IV.
Questi comportamenti singolari per una donna vissuta a cavallo tra Duecento e Trecento, «travestitismo, consapevolezza di sé, orgoglio del proprio sesso fino all’arroganza, alla superbia, ambizione, capacità di trattare da pari a pari con i regnanti e i potenti della terra, intelligenza acuta, astuzia anche, capacità di governare ed esercitare il potere sia direttamente che nelle forme oblique […] tessendo trame in un’epoca e in ambienti che sulle trame si reggevano» (Sciascia, 2006: 176), fanno sì che la sua figura goda di una certa fortuna, pur se fossilizzata nello stereotipo della femmina ammaliatrice e dissoluta, contraria a quel canone di obbedienza e morigeratezza largamente condiviso.
La fama delle sue gesta, pur se alterata e manipolata, ha dato origine a numerose suggestioni, tradizioni e leggende, come ad esempio quella del “pozzo di Gammazita”, tra le più conosciute e amate della storia della città etnea, che racconta della passione di Macalda, potente vedova, sovrana di Catania nel 1278, per il suo giovane paggio Giordano. Questi, innamoratosi della bella Gammazita, desta la gelosia e le ire di Macalda che invia il francese de Saint Victor per tendere un agguato alla ragazza che si reca quotidianamente al pozzo ad attingere acqua. La giovane, però, preferisce gettarvisi dentro e morire piuttosto che subire violenza. Giordano, appreso il tragico evento, uccide a pugnalate il prepotente, mentre lo sdegno della popolazione catanese accende il Vespro che divampa allargandosi in tutta l’isola.
La rilettura boccacciana
Ma l’eco senza dubbio più significativa della vicenda di Macalda è quella che ritroviamo nella VII novella della Decima giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio in cui Pampinea racconta dell’amore impossibile di Lisa Puccini per «Re Pietro di Raona».
Boccaccio sarebbe venuto a conoscenza di una versione orale della storia di Pietro III e Macalda Scaletta che, abilmente edulcorata o trasformata dai racconti tramandati verbalmente, è stata d’ispirazione per la novella.
La forte e spregiudicata passione di Macalda verso il re e l’atteggiamento magnanimo di quest’ultimo che, pur negandosi e mantenendosi fedele al patto coniugale, si mostra benevolo nei confronti della donna costituiscono il nucleo del racconto. Diversamente da Macalda, Lisa Puccini rappresenta un esempio di umiltà e sottomissione femminili poiché, pur innamorata del sovrano, acconsente a fare pienamente la sua volontà, accettando di sposare l’uomo cui Pietro l’ha destinata.
Lisa è l’anti-Macalda, la positiva sublimazione di una figura ammantata da un’aura di pregiudizio e sospetto, consegnata alla storia come spregiudicata e immorale, incapace di dominare i suoi appetiti, bollata, addirittura, nella leggenda di Gammazita, come colei che innescò la guerra dei Vespri.
Di fatto, l’agire anticonvenzionale di una dama che non eccelle come sposa e madre ma che, al contrario, ostenta atteggiamenti e abitudini “maschili” nell’abbigliamento, nelle mire politico-sociali e perfino all’interno della sfera sessuale, non può che condannarla al completo oblio o a una crudele censura, sottraendosi, quasi sempre, a un sereno e onesto tentativo di analisi storicizzata. Questo è stato il destino di Macalda, colpevolmente strumentalizzata o capziosamente raccontata, e solo di recente riammessa a una più serena e lucida valutazione1.
NOTE
1. Per approfondire ci sia consentito rinviare a: D. Marchese, L’epica della passione. La Sicilia di Macalda di Scaletta, Lisa Puccini e Gammazita, Carthago, Catania 2018 ed a L. Sciascia, Macalda Scaletta, in Fiume M. (a cura di), Siciliane. Dizionario biografico, Siracusa, E. Romeo 2006.
Referenze Iconografiche: Lebrecht Music & Arts/ Alamy Stock Photo