Viaggiatrici ed esploratrici. La geografia delle donne

GEOGRAFIA

Escluse fino alla prima metà del Novecento dal sapere geografico istituzionale, le donne seppero dar corso al proprio interesse geografico-territoriale in un modo del tutto originale: divennero esploratrici. Di fronte a una scienza tutta maschile, di impianto strategico-militare, il viaggio e i resoconti di viaggio furono l’unico modo possibile di produrre un’ “altra geografia”, praticata da figure femminili di straordinaria modernità.

Nella foto, la geografa e scienziata viaggiatrice Ida Pfeiffer.

di Luisa Rossi

L’esclusione delle donne dalla geografia come sapere teorico e scienza applicata

Il principale geografo italiano del secondo Novecento, Lucio Gambi, nel famoso scritto Uno schizzo di storia della geografia in Italia1, rifletteva sull’idea corrente che faceva coincidere la nascita della geografia con il suo regolare insegnamento nelle università o con la fondazione delle società geografiche e delle riviste geografiche (nate a partire dall’Ottocento).
Gambi non era d’accordo con questa impostazione. Egli affermava infatti che per “geografia” non si deve intendere soltanto il sapere delle istituzioni (scuole, società, periodici, ecc.), ma anche, e ancor prima, il complesso di conoscenze (scientifiche, tecniche, pratiche) necessarie a all’organizzazione quotidiana del territorio.
Un esempio elementare: quanta sapienza geografica (e non solo) possiede il coltivatore le cui pratiche, fondate sulla conoscenza dei suoli, dei cicli dell’acqua, delle fasi lunari, sanno trarre dalle sue terre frutti meravigliosi? Per non parlare dell’ingegnere, che per costruire strade, ponti, città, deve ben conoscere il territorio su cui opera, farne le carte, e su di esse fare nuove carte di progetto. E per arrivare a un altro esempio, per certi aspetti il più significativo: il sapere geografico dei militari, grandi costruttori di carte, esito delle continue ispezioni sul terreno (proprio o dei nemici) su cui decidere le strategie di attacco o di difesa. La geografia serve, prima di tutto, a fare la guerra, è il titolo di un famoso libro del geografo francese Yves Lacoste2.
Si comprende dunque bene come queste geografie-saperi utili all’organizzazione sociale non riguardassero le donne delle epoche passate, destinate dalle convenzioni ai ruoli di mogli e di madri.
Ma anche alla geografia come sapere teorico, come disciplina di studio, le donne non avevano accesso. E difatti, la ricostruzione della storia della disciplina mostra come fossero rarissime ancora nella prima metà del Novecento. Per quanto riguarda la geografia internazionale, la storia della disciplina ci racconta una situazione non molto diversa.

Geografia e istruzione femminile

In proposito, è interessante ricordare quale fosse, nell’Europa dell’età moderna, il diritto all’istruzione in generale, e geografica in particolare, diritto conquistato in tempi lunghi anche dalle donne dei ceti più elevati. Nel passaggio dal XVI al XVII secolo, il dibattito riguardava soltanto l’istruzione femminile elementare, finalizzata alla formazione di una buona madre cristiana e basata sull’apprendimento della lettura e del catechismo. Di insegnare alle donne il latino - lingua indispensabile per accedere ai saperi alti - non se ne parlava neppure. E tuttavia, nel Sei-Settecento, qualche nome femminile cominciò ad emergere, nella letteratura, nella storia, nell’arte e, limitatamente a Francia e Inghilterra, in altri campi: giornalismo, filosofia, diritto, scienze naturali, matematica, fisica e astronomia. E nella geografia?
Charles Rollin, letterato e pedagogista che meritò gli elogi di Voltaire, di Montesquieu e di Chateaubriand, scrisse nel 1726 un’ampia opera pedagogica, il Traité des études3. All’educazione delle fanciulle, Rollin dedicò uno specifico capitolo in cui spiegava quali erano gli studi ad esse più convenienti. Oltre ad illustrare le prevedibili scrittura, lettura (anche dei poeti), aritmetica, musica, danza, lavoro manuale e cura della casa, il pedagogista riservava interessanti riflessioni al latino e all’insegnamento della storia. In particolare, considerava quest’ultimo «lo studio più adatto a ornare lo spirito delle fanciulle e anche a formare il loro cuore». Ma la storia sulla quale «occorre fermarsi più che su ogni altra e fare in modo che una fanciulla la possegga alla perfezione» è, secondo Rollin, la storia sacra, e solo all’interno di questa egli introduceva la geografia, non a caso accompagnata dalla cronologia. L’autore precisava subito che, per le fanciulle, lo studio di queste discipline «deve ridursi a ben poca cosa […] per non caricare troppo la loro memoria». Ben più esplicito e ampio risulta, nel trattato di Rollin, il ruolo assegnato alla geografia nella formazione degli adolescenti maschi. Rollin riconosceva che le ragazze erano in grado di apprendere altrettanto bene dei compagni maschi le lingue antiche - «il sesso di per se stesso non pone differenze nelle menti», affermava -, che sono poi quelle che «aprono la porta a tutte le scienze», ma molto pragmaticamente aggiungeva che tali insegnamenti sarebbero risultati per loro del tutto inutili dato che le donne «non sono destinate per nulla a istruire i popoli, a governare gli Stati, a fare la guerra, a esercitare la giustizia […]». Dunque, a che serve istruirle?

Geografia come sapere strategico ed esotismo dei racconti di viaggio

Quello che fu l’avvicinamento delle donne alla geografia venne riletto ancora negli anni Cinquanta del Novecento, a dir poco con preoccupazione, da François de Dainville, che pure rimane uno dei maggiori storici del pensiero geografico. Ricordando la passione della buona società parigina del secondo Seicento per indianerie e cineserie, spezie e paraventi, lacche e porcellane, esplosa con la pubblicazione delle relazioni dei viaggi dell’epoca, le informazioni divulgate con il fiorire dei commerci tra Francia ed Estremo Oriente, e con quell’evento straordinario che fu l’arrivo nella capitale francese del sontuoso corteo dell’ambasciata del Siam che «diede alla testa» ai parigini, «o meglio, alle Parigine», Dainville attribuiva la responsabilità di queste «giravolte della moda» e della «superficialità con cui, in quell’ultimo terzo di secolo, la curiosità francese svolazza da un oggetto all’altro» proprio «all’egemonia assunta dalle donne nelle correnti intellettuali». Secondo Dainville, il generale aumento della ricchezza aveva affrancato le donne dalla soggezione a una serie di impegni consentendo loro di dedicarsi, insieme alla filosofia «di cui vanno pazze», alla conoscenza della morale, della politica, della storia, della favola, della poesia, delle relazioni di viaggio, in una parola, delle belles lettres, potendone esse ormai parlare senza vergognarsi di averle apprese. L’esotismo delle relazioni di viaggio «era fatto apposta per sedurre le anime leggere di queste donne di mondo, incantate dalle stoffe variopinte venute dalle lontane Indie, disseminate di uccelli, di fiori e di ramages. La conversazione alimentava l’incantamento dei loro sogni». A proposito di conversazione, Dainville ricordava l’affermazione secondo cui: «Occorre che le donne non si sforzino di apparire troppo geografe facendo uso di parole che sulla loro bocca sono sconvenienti»4.
Quanto esposto ci permette di affermare che l’esclusione delle donne dalle scienze geografiche trova facile spiegazione nel carattere marcatamente politico-strategico di questi saperi a lungo rimasti pertanto di esclusiva competenza maschile.

La pratica del viaggio femminile e la scrittura di viaggio

Da tali riflessioni scaturisce la mia tesi. Quando, in epoca moderna, le scienze andarono precisando il proprio statuto e le donne iniziarono il loro lento ma inarrestabile percorso di inserimento in molti campi di studio, quelle di loro, naturalmente versate o per qualche ragione interessate alle questioni geografico-territoriali, realizzarono le proprie inclinazioni nell’unico modo in cui era per loro possibile farlo: attraverso la pratica del viaggio e la scrittura di viaggio.
Nell’impossibilità, per le ragioni che si sono dette sopra, di essere geografe a tavolino o attive nella geografia applicata, le donne sono state, con tutti i limiti comprensibili, esploratrici.
Le viaggiatrici che hanno scelto di effettuare un’esperienza conoscitiva in realtà geografiche più o meno lontane, generalmente senza l’avvallo sociale né il sostegno economico di un’istituzione, potevano essere oggetto di condizionamenti culturali, potevano, anche, essere il bersaglio di critiche malevole o di manifestazioni di derisione da parte dei loro contemporanei, ma non potevano essere fisicamente inibite nella loro libertà di movimento. Il viaggiare è stato, in sintesi, l’unico modo per le donne di produrre geografie.
È impossibile dare qui conto, anche solo superficialmente, della ricchezza, quantitativa e qualitativa, degli scritti (ma anche disegni e perfino carte) prodotti dalle donne nel corso delle loro esperienze di viaggio, dei loro percorsi geografici e intellettuali. Il presente scritto, che necessariamente tralascia concetti e casi di viaggiatrici importanti, è il risultato di ampi studi e ricerche, confluite nel volume L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe (Reggio Emilia, Diabasis, 2005 e 2011), a cui rimando per una panoramica esaustiva. Qui ci limiteremo a presentare due figure molto diverse per l’epoca, la personalità, i luoghi in cui hanno compiuto le loro esperienze ma simili nell’approccio a un mondo “altro”.

Due figure emblematiche: Maria Sibylla Merian e Ida Pfeiffer

L’olandese Maria Sibylla Merian (1647-1717), dal suo viaggio in Suriname (Guyana olandese) compiuto fra il 1699 e il 1701 riporterà una collezione naturalistica e una serie di meravigliosi disegni di bruchi, insetti, farfalle posizionati nel loro habitat: tutto un universo naturalistico ancora sconosciuto in Europa. Maria Sibylla non scrisse un diario, ma corredò le tavole della sua preziosa opera con descrizioni che entrano nel merito dell’ambiente naturale e sociale della regione visitata.
Le osservazioni sul processo di metamorfosi degli insetti sono preponderanti, e anche molto interessanti perché contribuirono allo smantellamento della teoria, ancora largamente diffusa, della derivazione spontanea degli insetti dalla materia putrescente. Ma vi troviamo intelligenti critiche alla distruzione della foresta tropicale da parte dei coloni olandesi a vantaggio della monocultura della canna da zucchero, che infatti avrebbe rovinato le economie tradizionali. E vi troviamo anche osservazioni ricche di empatia per la condizione degli schiavi.
Gli studi, pur non sistematici, della Merian avranno un certo riconoscimento, come dimostra il nome attribuito da Linneo a una falena, la Tinea Merianella.
Durante il Settecento altre viaggiatrici raccontarono il mondo visitato, ma è nel corso dell’Ottocento che esplose il fenomeno del viaggio femminile.
Esemplare è il caso dell’austriaca Ida Pfeiffer (1797-1858). Casalinga, fornita dell’istruzione modesta delle donne, anche benestanti, del suo secolo, nel 1842, all’età di quarantasette anni, dopo aver vissuto una vita di moglie e madre tradizionale, prese a viaggiare: Terrasanta, Islanda e Scandinavia; quindi un primo giro del mondo di due anni e sette mesi (maggio 1846 - novembre 1848) e un secondo giro del mondo durato ben quattro anni e due mesi (marzo 1851 - maggio 1855). Infine, nel 1856, il viaggio in Madagascar dove contrasse una grave malattia.
Dai suoi viaggi derivarono interessanti diari ricchi di informazioni geografiche e impressioni. Ci limitiamo a riportare il racconto della sua “visita” alle tribù dei dayak. Per questo la ricorderà anche Salgari nel suo romanzo I naufragatori dell’Oregon.
L’incontro con i dayak, cacciatori di teste, avvenne nel gennaio del 1852, proprio all’inizio del suo secondo giro del mondo quando, proveniente da Città del Capo, era sbarcata a Sarawak (oggi Kuching), sulla costa nord-occidentale del Borneo.
La viaggiatrice viene accompagnata all’interno delle loro capanne dove dal soffitto pendono le teste dei nemici uccisi. Ecco come Ida Pfeiffer, figura di donna molto religiosa, convinta liberale, appassionata antischiavista, nei cui diari non mancano giudizi contradditori, talvolta infarciti di eurocentrismo e perfino di osservazioni di stampo razzistico, racconta l’incontro:

Io rabbrividii, ma non potei fare a meno di riconoscere che noi Europei, lungi dall’essere superiori a questi selvaggi tanto disprezzati, valiamo ancora meno di loro. Non è forse ogni pagina della nostra storia piena di misfatti, morti, tradimenti di ogni genere? Che cosa esiste di paragonabile alle guerre di religione in Germania e Francia, alla conquista dell’America, al diritto del più forte e all’Inquisizione? E anche in quest’epoca in cui siamo, forse, in apparenza, più educati e civili, siamo per questo meno crudeli? Con le teste sacrificate all’ambizione e alla sete di potere da moltissimi e famosi Europei potrebbero essere decorati, non poche e miserevoli capanne come quelle dei Dayachi ignoranti e barbari, ma i saloni di palazzi immensi. Quante migliaia di vite umane sono state immolate per soddisfare il desiderio di conquista dei grandi governanti! Non è forse la maggior parte delle guerre iniziata per appagare la cupidigia e l’ambizione di un solo uomo? Io sono veramente stupita di vedere come noi Europei osiamo lanciare anatemi contro i poveri selvaggi che uccidono i loro nemici come noi uccidiamo i nostri, ma che possono almeno essere giustificati dal fatto di non avere né una cultura né una religione che insegni loro la bontà, il perdono e l’orrore del sangue […]5.

La “doppia alterità” delle viaggiatrici occidentali

Le relazioni e le immagini che Maria Sibylla Merian, Ida Pfeiffer e molte altre donne ci hanno lasciato ci invitano a riflette sul loro viaggio materiale (tempi, mezzi, regioni attraversate), sul contributo che esse hanno dato alla conoscenza di quelle regioni, qualche (rara) volta trovando spazio anche in riviste scientifiche e, aspetto non secondario, sul loro modo di guardare il mondo.
Senza generalizzare possiamo dire che, per la sua stessa condizione sociale e culturale, la viaggiatrice occidentale è stata partecipe di una doppia alterità. Essa non poteva certo sottrarsi alla cultura colonialista cui apparteneva e, dunque, alla visione del mondo propria del “centro”. Tuttavia, appartenendo sia al centro colonizzatore sia, per la propria stessa condizione di donna, ai suoi margini, il suo posizionamento può considerarsi “doppio”, più ambiguo di quello degli uomini. La forma di “colonizzazione” che la viaggiatrice, in quanto donna, subiva, la fece partecipare come l’Altro (donne, uomini, bambini delle società colonizzate) alla lotta per la propria affermazione ed emancipazione. In questa feconda ambiguità sta senz’altro una delle chiavi di lettura più interessanti per interpretare le donne viaggiatrici e la loro scrittura.

Nella foto, la geografa e scienziata viaggiatrice Ida Pfeiffer.

 

 

NOTE
1. Lucio Gambi, Una geografia per la storia, Torino, Einaudi, 1973.
2. Yves Lacoste, La géographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre, Paris, Maspero, 1976.
3. Charles Rollin, Traité des études, 3 voll., Paris, Didot, 1854.
4. François de Dainville, La Géographie des humanistes, Genève, Slatkine, 1969, pp. 474-476.
5. Ida Pfeiffer, Mon second voyage autour du Monde, Paris, Hachette, 1857, pp. 59-65.

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Luisa Rossi ha insegnato Geografia e Storia della geografia e delle esplorazioni all’ Università degli Studi di Parma. Ha condotto, tra gli altri, studi sulle donne viaggiatrici, confluiti nel volume L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe, Reggio Emilia, Diabasis, 2005 e 2011. Per studi più recenti si vedano Federica Frediani, Ricciarda Ricorda, Luisa Rossi (a cura di), Spazi segni parole. Percorsi di viaggiatrici italiane, Milano, Franco Angeli, 2012; Luisa Rossi, Le Alpi delle donne. Pagine dalla montagna, Milano, Unicopli, 2020

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