È nota l’affermazione di Freud secondo la quale ci sono tre mestieri cosiddetti “impossibili”: governare, curare ed educare. Il motivo va rintracciato nella natura, potremmo dire innaturale, di queste tre declinazioni del rapporto tra esseri umani. Ognuna di esse, infatti, contempla come proprio fondamento imprescindibile il Linguaggio. Ciò che fonda l’umano, ciò che lo rende tale, è il fatto di nominare attraverso il significante gli oggetti del mondo. Ciò che non ha un nome, una parola che lo rappresenti, non esiste. Nell’orizzonte della psicoanalisi, tutta la realtà viene trasformata dal Linguaggio; è ciò che permette a un bambino di giocare con una scopa fingendo che sia un’astronave.
Il potere della parola
Lo statuto della parola è tale che chi parla può capire quel che dice solo attraverso il rimando di chi lo ascolta: come dice Recalcati «una parola non ascoltata è un grido nella notte». Chi ascolta, d’altro canto, capirà quel che vuole capire – potrebbero farci eco le parole del Postino al Poeta Neruda: «La poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa». Parlare istituisce così con il suo stesso atto il fraintendimento o l’impossibilità di poter dire tutto.
È su questo presupposto che governare, curare ed educare sono considerati degli impossibili: la loro base, o meglio, la loro condizione, la loro stessa necessità, è data dal fatto che la parola, dicendo ciò che non c’è, al tempo stesso lo vela. Il dire istituisce l’impossibile a dirsi.
I dispositivi della legge, delle cure e dell’educazione, arginano questa struttura e al tempo stesso la istituiscono. Se così non fosse, un piccolo manuale d’istruzioni risolverebbe con agilità qualsiasi questione.
Il significato di “educare”
Entrando ora nel merito, domandiamoci: cosa significa educare?
Etimologicamente “ex-ducere” vuol dire “guidare fuori, far uscire, estrarre”.
Questo presupporrebbe che il contenitore contenga un contenuto. Declinato sull’educazione alle emozioni, il presupposto sarebbe quindi che l’educatore faccia emergere nell’educato un pre-determinato bouquet emotivo. Questo prevederebbe che le emozioni siano già lì in attesa di un soccorritore che le tiri fuori, come tenute in ostaggio da qualcuno o qualcosa. Chiaro che, se le cose stanno così, c’è qualcosa che non va.
Cosa sono le emozioni?
Le neuroscienze distinguono tra emozioni primitive, quali la rabbia, la paura e la gioia, ed emozioni superiori, come i sentimenti. Le prime sono provate da tutti gli animali, le seconde solo dagli esseri umani. La differenza sostanziale però è che le emozioni, in quanto provate dall’animale, rimangono qualcosa dell’ordine di un tracciato neurofisiologico; in quanto umane, esse invece assumono una struttura linguistica, ovvero vengono declinate a partire dal campo dell’Altro. Non c’è in questo senso un’oggettività di riferimento, ma solo il valore simbolico in cui il soggetto è inserito.
Cercheremo di essere più chiari con due esempi. Il primo esempio è un’esperienza comune a molti genitori: quando un bambino cade, la sua prima reazione è quella di guardare come reagisce chi gli sta accanto. Se questi griderà e mostrerà terrore, il bambino piangerà; se invece l’Altro sorriderà e sdrammatizzerà, il bambino riderà. Questo perché il bambino non sa quale emozione deve provare, è l’Altro in quanto simbolico che gli suggerirà di disperarsi oppure di ridimensionare la cosa.
Un secondo esempio proviene da una mia analizzante che ha paura di tutti gli animali, in special modo dei gatti. Quel che rende interessante questa fobia non è tanto il fatto che non si appoggi su alcun dato oggettivo, quale potrebbe essere un morso o un graffio, quanto che questa paura non abbia bisogno della presenza reale dell’oggetto per manifestarsi. Come dice questa donna, di un gatto le fa paura anche solo vedere la foto. È evidente qui che quella che viene chiamata emozione primitiva, ovvero, banalmente, il fatto che il coniglio teme il lupo, ha subito una trasformazione tale per cui l’oggetto diviene fobico in quanto simbolizzato. Per semplificare, potremmo dire che questa donna non ha paura del gatto, bensì della parola “gatto”, di ciò che essa simbolizza per lei.
Questi due semplici esempi vogliono chiarire che cosa dobbiamo considerare come emozione. Le emozioni non sono qualcosa che è già lì e che si tratterebbe, come suggerivamo prima, di condurre fuori attraverso una speciale exit strategy.
Perché le emozioni possano essere “e-ducate”, bisogna prima che siano state simbolizzate. Prima, ed è un prima più logico che cronologico, viene la parola, poi l’emozione: se non c’è parola per dirla, l’emozione non esiste. Come direbbe Lacan, «per estrarre un coniglio dal cilindro, bisogna prima avercelo messo»; dove il linguaggio, va da sé, è il cilindro. Fateci caso, e questo vale per le emozioni come per qualsiasi altro oggetto: sono le parole a determinare l’esistenza di qualcosa. Quando si inventa un nuovo oggetto, bisogna trovargli un nome nuovo per decretarne il posto nel mondo. Oppure, se preferite, il fatto che qualcosa possa essere pensabile dipende dalla possibilità di rappresentarla simbolicamente; posso pensare solo le parole che conosco. Provate a parlare di “bianco” con un eschimese...
Le immagini per rappresentare le emozioni
Il problema che si pone oggi è che la parola pare indebolita a vantaggio dell’agito; potremmo dire che le emozioni non sono sentite ma messe in atto. Sebbene viviamo in un mondo che ha fatto della comunicazione l’asse della propria rotazione, parliamo tanto ma non diciamo niente. A mero titolo di esempio, pensiamo alle emoticons dei linguaggi multimediali.
“Emot-icon” significa proprio “immagine per rappresentare un’emozione”. Le icone rappresentano qualcosa, alla stregua delle foto dei gatti della mia analizzante. Le emoticons sono immagini che rappresentano emozioni, senza parole. L’effetto è che le persone, a maggior ragione i giovanissimi cosiddetti nativi digitali, non sanno più dire quello che provano; il coniglio rimane incastrato nel cilindro.
Le emozioni nella società contemporanea
È una novità dell’ultimo decennio quella di riflettere su un tema, l’educazione alle emozioni, che fino all’altro giorno era dato per assodato o, al meglio, era ignorato; “al meglio” perché non ve n’era bisogno. Non corriamo il rischio di trovare una pagliuzza contro la quale puntare il dito, ma limitiamoci a prendere atto di quello che Lacan chiama “discorso del capitalista”. La modalità di legame della società contemporanea è caratterizzata dalla predominanza degli oggetti di consumo sulle logiche relazionali, con l’effetto di trasformare le parole in oggetti. Basti guardare qualsiasi pubblicità: non vengono promossi elettrodomestici, articoli di bellezza, generi alimentari e via dicendo, bensì emozioni. Reti telefoniche senza limiti, pay-tv da sogno, accessori irrinunciabili... Gli oggetti di consumo non sono fini a sé stessi, ma devono produrre felicità, quella felicità a cui i rapporti umani, che si fondano sulla parola, proprio per questo faticano a restare appesi.
Per parafrasare una nota campagna pubblicitaria, “Le parole non sono una carta di credito”. Questo è il motivo, che certamente meriterebbe un approfondimento, per cui oggi ci si interroga sull’educazione delle emozioni. Le persone, in particolare i giovani, non hanno più gli strumenti atti a contemplare quello che provano. Venendo meno il contenitore, il contenuto dilaga come un magma impetuoso.
Il mondo degli adulti e il mondo dei giovani
Se questo è pur vero, lo è anche il fatto che il famigerato mondo degli adulti, che giustamente si impegna nella promozione di buone pratiche educative, non è però per questo assolto dal proprio coinvolgimento. Per esempio, è molto frequente sentire frasi di questo genere: “Mio figlio non si stacca più dallo smartphone, e se glielo togli di mano va in crisi”. Allora si pensa di richiedere l’intervento dello psicologo di turno per insegnare a gestire gli orari, le chat e i contenuti sensibili. Bene. A nessuno viene però in mente di domandare: chi gliel’ha dato il telefono? Telefono che, come ricorda una mia amica giurista specializzata in cyberbullismo, può essere pericoloso come un’arma (tu la daresti una pistola a un ragazzino di seconda media?). E soprattutto, perché glielo hai dato? Per chiamarlo durante le ore di scuola e sapere come è andata la verifica? Per controllarlo? Perché temi che si possa fare del male? Per inculcargli i tuoi incubi, come direbbero i Pink Floyd? E poi i genitori si lamentano che i figli non escono di casa. Il recente fenomeno epidemico del ritiro sociale è solo uno dei modi attraverso cui i giovani cercano di gridare qualcosa per cui non hanno parole. Un mutismo che origina dalla difficoltà degli adulti contemporanei, in primis, di parlare. In risposta a ciò, si demanda l’educazione ad algoritmi inumani e a un eccesso di presenza, vuota. È come un continuo andare al cinema, dove si può stare assieme aggirando l’ostacolo più grande, ovvero: che dire?
Un’inversione evolutiva?
Sono d’altra parte drammatici gli ultimi dati sull’ampiezza del vocabolario dei giovani. Se partiamo dal presupposto che “se non sai dirlo, non sai provarlo”, siamo di fronte a quello che possiamo definire un vero e proprio analfabetismo emotivo. È come se si stesse invertendo la linea evolutiva che ci distanzia dal regno animale. Peccato che da qualche parte, in quello che Lacan chiama il “campo dell’Altro”, le parole per dirlo esistono pure e pertanto le emozioni, per quanto inespresse o inesprimibili, ruggiscono. La domanda allora, implicita nell’interrogare questo tema, è come trasformare il ruggito in un verso… poetico.
Il segreto? Far emozionare gli studenti
Leggete poesie! Bisognerebbe affiggere cartelli recitanti questa frase in ogni aula docenti. Le vostre di poesie, più che quelle delle auctoritates, o meglio, leggete le poesie delle auctoritates come fossero vostre. Più ancora che l’enunciato, conta il punto di enunciazione, il “da dove” uno parla. Quando Benigni recita la Divina Commedia, in primo piano non c’è il testo e nemmeno la sua capacità da Premio Oscar, bensì il suo amore per quelle parole.
In altri termini, dal punto di vista di un insegnante, poco conta che sia professore di letteratura o di economia aziendale, si tratta di far emozionare, attraverso la propria testimonianza, gli studenti. Non dare il buon esempio, come chi sa in cosa consiste il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto, che per partito preso è sempre da non seguire, bensì trasmettere il vostro desiderio. Se per e-ducare le emozioni bisogna prima averle pro-dotte, è la vostra parola la prima emozione. Anche una noiosissima lezione può infondere entusiasmo e curiosità se tenuta con la passione che ha condotto lì quel determinato insegnante. Si prova gioia, paura, batticuore nella misura in cui esse sono suscitate dalla gioia, dalla paura, dal batticuore dell’Altro.
È allora qui che il senso dell’educazione come processo maieutico di estrazione, di condurre fuori, riprende un nuovo slancio, attraverso la testimonianza di una possibilità, la possibilità che le emozioni possono trovare una parola incarnata.
Dall’impossibile all’in-possibile il passo è breve, basta spostare una gamba. Basta ballare, direbbe la mamma di JoJo-Rabbit. Bisogna avere fiducia nei giovani, nella possibilità delle emozioni che avrete saputo evocare in loro. Perché è innanzitutto l’incontro con il desiderio dell’Altro che educa alle emozioni.