Videointervista con Giuseppe Lupo

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Insegnare letteratura oggi

APPROFONDIMENTI DISCIPLINARI

Abbiamo il piacere di mostrarvi l’intervista a Giuseppe Lupo, professore di Letteratura italiana presso l’università Cattolica di Milano e Brescia, scrittore di saggi e romanzi, e firma del “Sole 24 ore” e dell’”Avvenire” per le pagine culturali. Con lui abbiamo approfondito alcuni temi del suo ultimo romanzo, Gli anni del nostro incanto, fresco vincitore del Premio Viareggio Rèpaci. Gli abbiamo poi chiesto una riflessione sull’insegnamento della letteratura e sul valore dell’insegnamento. Guarda il video

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Gli anni del nostro incanto

Il suo ultimo romanzo, Gli anni del nostro incanto, è ambientato negli anni sessanta e settanta e vede protagonista una famiglia il cui padre è un operaio del Sud emigrato a Milano. Gli anni sessanta sono quelli del boom economico e del grande sviluppo industriale. Poi da quell’età “sbarluscenta” si passa agli anni di piombo fino ad arrivare al primo scorcio degli anni ottanta. Ecco: che Italia, o che Italie erano secondo Lei quelle di allora?

L'Italia degli anni sessanta è una nazione che per la prima volta si affaccia alle soglie della modernità, intesa non tanto nelle categorie filosofiche, piuttosto come diffusione di strumenti tecnologici (lavatrici, frigoriferi, automobili ecc.) e benessere per tutti. È una nazione che finalmente ha voltato pagina rispetto a quella che era stata fino a pochi decenni prima la civiltà della terra e adesso si trova dentro la civiltà delle macchine. La cosa che più impressiona è la dimensione democratica di questo fenomeno: tutti possono accedere a quei beni che un tempo erano per pochi.
Gli anni settanta invece sono segnati dalla contestazione (che inizia già sul finire del decennio precedente) e da alcuni fenomeni che caratterizzano negativamente: la prima crisi petrolifera (l'austerity), il disordine politico che si manifesta negli attentati (anche questo un lascito degli anni sessanta con la bomba di Piazza Fontana) e nel terrorismo, fino all'assassinio di Aldo Moro. Con i mondiali di calcio del 1982 credo che si volti pagina e che in un certo modo cominci un decennio in cui prevale il desiderio di mettere fine alle ideologie, alla pesantezza degli anni di piombo in nome di una leggerezza che sarà quella della "Milano da bere".


Nel romanzo il filo rosso della narrazione è una foto, quella di copertina, che mostra una famiglia, la famiglia del romanzo appunto, in Vespa nel centro di Milano. È una scelta piuttosto originale il fatto che sia un’immagine a guidare lo sviluppo della storia. Ci può raccontare come è nata l’idea del romanzo? Cosa l’ha colpita di quella foto? (in un suo recente articolo pubblicato sul Sole 24 ore Lei afferma che troppe foto, e il riferimento è al numero altissimo di foto e selfie che scattiamo ogni giorno, finiscono per “scolorare il senso della memoria” invece che darle vigore...)

Il romanzo nasce da quella foto e rimane dentro quella foto, che io avevo trovato sul “Corriere della Sera” di qualche decennio fa e che avevo conservato perché mi aveva colpito per il suo forte valore narrativo. Il movente doveva restare in quella immagine che diventa una specie di motore del racconto: cosa c'è prima e cosa c'è dopo? Il romanzo nasce intorno alla foto, nel senso che ho dovuto raccontare da dove venisse quella famiglia e dove stesse andando. In mezzo c'è l'immagine. Probabilmente ho scritto un libro "interattivo".
Per quanto riguarda la tendenza di oggi a scattare foto e selfie in continuazione: l’abbondanza di immagini finisce per togliere valore al loro significato: la facilità dello scatto ci ha fatto perdere la capacità di cogliere un preciso momento e di fissarlo nel tempo.


La narrazione del libro avviene in prima persona ed è una donna, Vittoria, che si fa carico di raccontare alla madre, senza memoria, la storia della loro famiglia. Anche in un suo romanzo precedente, L’ultima sposa di Palmira, la protagonista, nonché narratrice in prima persona, è una donna. C’è un motivo per cui sceglie spesso protagoniste e punti di vista femminili?

Nel caso specifico di L'ultima sposa di Palmira avevo pensato di affidare il racconto a una donna perché mi pareva di toccare una corda più emotiva rispetto a una voce maschile: era un libro su una civiltà scomparsa, su un paese fantasma, su un mondo che era morto e che sarebbe dovuto rinascere nel racconto del falegname. Una donna può essere la persona giusta per raccontare di una morte e di una rinascita. Nel caso di Gli anni del nostro incanto invece la scelta di una voce femminile risponde a due motivi: uno perché di solito sono le figlie che stanno vicino di più a un genitore in un letto d'ospedale, l'altro perché lo sguardo femminile è più analitico e preciso di quella maschile e in presenza di un'amnesia da guarire sono i particolari (per esempio gli orecchini, la cintura, le scarpe, la borsa, i capelli) che potenzialmente fanno ricordare.

Una neoscrittura per il futuro?

In un suo articolo apparso sul Sole 24 Ore, “Una neoscrittura per immaginare il futuro”, Lei mette in luce come negli ultimi decenni si utilizzi, in letteratura e non solo, sempre più la parola “post” in sostituzione di “neo”, termine invece molto usato nel secondo dopoguerra (neorealismo, neoavanguardia, neosperimentalsmo ecc.). Da qui il pensiero che non siamo più capaci di cercare i caratteri del rinnovamento e l’invito a immaginare una neo-scrittura con cui non si ritragga più il mondo così com’è, ma ci si avventuri in un “mondo come dovrebbe essere o come vorremmo che fosse”. Eppure i suoi libri spesso guardano al passato o a un mondo immaginario. C’è una contraddizione in questo?

La letteratura, tranne per le utopie o le distopie, è sempre racconto di un passato, che sia remoto o che sia prossimo non cambia. La letteratura è figlia delle Muse e le Muse sono figlie di Mnemosine, che è la dea del ricordo. Dunque non si può fare letteratura se non raccontando ciò che è passato. Il problema è stabilire che tipo di valore diamo a questo passato: può essere semplicemente nostalgia (e dunque essere uno sterile esercizio della memoria) oppure può essere ricerca di una identità (e quindi proiettarsi in una dimensione di futuro). Spesso, scrivendo una storia, tracciamo il disegno di ciò che siamo e del mondo che costruiamo.

La letteratura e il presente

Nella sua attività di “giornalista” affronta spesso temi di attualità, come quello della migrazione in Italia: in particolare ha commentato di recente alcuni sondaggi da cui risulta che l’elettorato di area cattolica simpatizza per la linea dura dell’attuale governo. Abbiamo trovato interessante il fatto che nella sua argomentazione abbia citato due autori: Alessandro Manzoni e Mario Pomilio. Secondo Lei può essere questa una chiave nell’insegnamento della letteratura a scuola? L’idea cioè che gli autori del passato possono interrogarci e indurci a riflettere sulla realtà sociale, morale, culturale e politica del nostro Paese?

L'unica dimensione per cui vale la pena continuare a studiare letteratura nelle scuole (ma se vogliamo anche nell'ambito universitario) è la prospettiva culturale (e non letteraria), vale a dire comprendere che un testo, del passato come del presente, ha valore se "ci dice" qualcosa che permetta di comprendere noi e il mondo in cui siamo. La funzione di classico è esattamente questa e per questa ragione un classico è un testo intramontabile: continuare a dire sempre, come indica Calvino in Perché leggere i classici.

La letteratura a scuola

Lei insegna all’Università: come giudica l’insegnamento della letteratura a scuola, sia nel primo e secondo ciclo sia in ambito universitario? Quali i pregi e quali i difetti nel modo in cui si insegna la disciplina nel nostro Paese?

Io penso che insegnare, in qualsiasi ordine di scuola, sia innanzitutto un gesto civile. Occuparsi di libri, di letteratura, di testi lontani o vicini, ha una funzione politica, perché serve alla polis. L’aspetto fondamentale dell’insegnare a mio parere sta nella motivazione: un insegnante appassionato della sua materia è il primo esempio, capace di trasmettere l’entusiasmo e l’interesse per la disciplina e per la lettura.

Chi è l'intellettuale oggi?

Abbiamo visto che Lei è impegnato su più fronti: insegna all’Università ed è autore di saggi in ambito accademico, scrive romanzi, è giornalista… un rapporto, quello con la scrittura, molto fecondo: si ritiene un caso “atipico” di intellettuale? E chi è secondo Lei intellettuale oggi?

Penso che l'accademia debba aprirsi all'esterno e dare un contributo, com'è peraltro nei suoi mezzi, alla società e al presente. In questa prospettiva io vivo la mia funzione di docente come una testimonianza di quello che penso e di quello che sono. Esiste cioè una funzione civile dello studio e della ricerca, fare lezione in un'aula non è semplicemente un riferire nozioni a persone, ma testimoniare una visione della vita, un'idea di mondo, anzi contribuire a edificare qualcosa che sarà nel futuro. Gli intellettuali hanno abdicato per troppi decenni da questa funzione e si sono nascosti. Credo sia giunto il tempo di tornare a parlare.

Come stimolare la lettura?

Concludiamo con un ultimo tema fondamentale per l’insegnamento dell’italiano a scuola: la lettura. Sappiamo che in Italia si legge pochissimo e che il problema inizia appena finisce la scuola. Eppure gli eventi letterari, come il festival di Mantova o il Salone del Libro di Torino, ottengono sempre un grandissimo successo di pubblico. Secondo Paolo di Stefano e Gino Roncaglia un modo per avvicinare gli studenti al piacere della lettura potrebbe essere quello di animare maggiormente le biblioteche scolastiche facendone luoghi di incontro e di dibattiti. Le sembra una proposta convincente? Come si può stimolare nei ragazzi l’amore per la lettura?

L'incontro con il libro avviene per le ragioni più casuali e disparate. Non si nasce lettori, ma lo si diventa. Il diventarlo è una sfida. I festival, gli eventi, le manifestazioni possono essere uno stimolo ad avvicinarsi ai libri. Però penso che il motore che possa far accostare gli studenti ai libri sia una funzione che riguarda i professori. Nel momento in cui il professore è convinto di leggere ed è un frequentatore appassionato del mondo dei libri trasmette indirettamente questo entusiasmo. In definitiva una scuola funziona con docenti bravi e motivati.

 

Giuseppe Lupo è professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e Brescia. Ha pubblicato numerosi saggi tra cui Sinisgalli e la cultura utopica degli anni Trenta (1996 e 2011); Vittorini politecnico (2011), La letteratura al tempo di Adriano Olivetti (2016).
È inoltre autore di alcuni romanzi editi da Marsilio, con i quali ha vinto diversi premi letterari: L'americano di Celenne (2000; Premio Giuseppe Berto, Premio Mondello), Ballo ad Agropinto (2004), La carovana Zanardelli (2008), L'ultima sposa di Palmira (2011; Premio Selezione Campiello, Premio Vittorini), Viaggiatori di nuvole (2013; Premio Giuseppe Dessì), Atlante immaginario (2014), L'albero di stanze (2015; Premio Alassio-Centolibri) fino al più recente Gli anni del nostro incanto (2017) che si è appena aggiudicato il Premio Viareggio Rèpaci.
Collabora alle pagine culturali del “Sole 24 ore” e dell’“Avvenire” ed è un autore di manuali scolastici Pearson.