Un brusio indistinto
Fra i molti film che trattano, più o meno felicemente, il tema della scuola, pochi si pongono l’obiettivo di rappresentare in modo credibile il microcosmo della classe, intesa come aula e come gruppo umano che condivide sicuramente uno spazio e, auspicabilmente, delle esperienze educative. Mi viene in mente, in realtà, solo un film, a mio parere notevole: La classe - Entre les murs, di Laurent Cantet, premiato con la Palma d’oro a Cannes nel 2008, i cui protagonisti appartengono per davvero alla scuola, sono davvero insegnanti e alunni.
Il bello del film è la presa diretta, diffusa nella cinematografia francese (francese è il film e anche il contesto, quello di una composita, stratificata, periferia parigina), che restituisce le situazioni, gli umori, i rumori della scuola. E sono i rumori a interessarmi qui, il brusio della classe compressa in uno spazio piccolo: un rumore non necessariamente spiacevole e anzi decisamente vitale, se si considera la sua somiglianza con il ronzio affaccendato dell’alveare.
Mi sembra che il rumore della classe richieda a noi insegnanti un atteggiamento di ascolto. Penso che in generale l’insegnamento si qualifichi sempre di più come una attività di ascolto, intesa tanto nella accezione irriflessa e passiva di assorbimento di suoni quanto in quella, consapevole e vigile, di attivazione della nostra capacità di decodifica di messaggi. Mi spiego: all’insegnante spetta il compito di ridefinirsi e ricollocarsi nella classe ogni volta che vi mette piede (o almeno le prime volte che vi mette piede) e di ridefinire e rendere credibile l’opportunità e la necessità o, addirittura, il vantaggio (per studenti e studentesse) della sua presenza.
Mi sembra che la strada meglio praticabile per arrivare a questo risultato sia quella di conoscere e appropriarsi del contesto di classe, di ascoltare appunto, cui si accompagna necessariamente l’attivazione di strategie per far sì che siano gli altri (le studentesse, gli studenti) ad ascoltare l’insegnante.
Dedicherò pertanto il mio intervento alle esperienze e agli studi che mi hanno messo nella condizione di ascoltare e di essere ascoltata, nelle mie classi e mentre insegno letteratura italiana.
L’ospite atteso
Troppo spesso ci si dimentica, entrando in un’aula, che la classe era già lì prima di noi e rimarrà lì dopo che ce ne saremo andati. Nelle scuole italiane è così, con l’eccezione, a mio parere meritoria, di alcuni istituti in cui sono ragazze e ragazzi a raggiungere l’aula del docente e con l’eccezione, a mio parere strana, dell’aula virtuale della didattica a distanza, sempre abitata dal docente e occasionalmente attraversata dalle sue classi. Entrare in classe quindi significa andare a occupare uno spazio che non ci appartiene in modo esclusivo e che aderisce molto meno a noi di quanto aderisca alle classi che vi trascorrono ore e ore.
In classe siamo degli ospiti e cortesia vuole che entriamo in relazione con gli ospitanti nel modo più consono a loro, a noi, e alla situazione. La lezione, per quanto meticolosamente preparata, può infrangersi contro gli scogli di una classe disinteressata o può capitare che, partiti per un viaggio con una meta precisa, ci si trovi, per condizionamento della classe, in tutt’altro luogo. È bene che sia così. O meglio, è bene che si conosca e capisca a tal punto la classe (ascoltandola e decifrandola) da arrivare alla meta (per esempio, la conoscenza di un’opera letteraria) scegliendo la strada meglio praticabile, non dico in una classe di quel tipo, ma proprio in quella classe lì.
Sono proprio felice
Mi capita spesso di iniziare una lezione in modo provocatorio. Ascolto, fiuto il disinteresse potenziale (ma anche l’interesse inconfessabile, a volte) e cerco di provocare l’attenzione con un’affermazione che, alle orecchie del mio pubblico, suona esagerata e fuori luogo. Per esempio: «Oggi sono proprio felice perché inizio a parlare di Giovanni Verga. Sì, sono felice» (grande ed esibita soddisfazione da parte mia). Che ci si dica e ci si mostri felici di affrontare un argomento di letteratura sembra un po’ ingenuo ai miei ragazzi, che mi guardano in sospeso fra incredulità e compatimento. E lasciamo stare il fatto che parlare di Verga, che è un autore in altissima posizione nelle mie preferenze di lettrice, per me è davvero un piacere (parlerò proprio di Verga in questo contributo per il motivo appena detto e perché, notoriamente, quest’anno ricorre il centesimo anniversario della sua morte). Il ghiaccio è rotto e posso passare alla fase successiva che è (ma potrebbe anche non essere: questa tappa della lezione, come spiegherò, è utile ma non necessaria) la presentazione della o delle foto di Verga, di cui normalmente i manuali sono corredati e che si trovano in internet in gran numero.
Fotografie
Passare dai ritratti fotografici è una risorsa, non perché si debba tenere una disquisizione tecnica o psicologica su di essi, ma perché permette di interloquire con la classe su argomenti di interesse condiviso. Lo stile della lezione è sempre lo stesso: ascoltare e rilanciare. La fotografia di Verga è a ben guardare una delle prime nella carrellata di autori della letteratura, preceduta da ritratti pittorici. Del ritratto pittorico le foto tardo ottocentesche conservano la compostezza della persona raffigurata, la posa. Le foto danno molte informazioni, anche di dettaglio, su chi vi compare, attraverso lo sguardo, l’acconciatura, i vestiti; nel caso di Verga, indubbiamente ma non diversamente rispetto agli altri autori dell’epoca, i baffi.
Parlando di Verga, poi, si parla proprio di un fotografo (molte delle sue fotografie sono reperibili in rete) e di un letterato che, per scelta, volle ritrarre le realtà di cui parlano i suoi scritti in un modo che, con una approssimazione adatta agli studenti, potremmo definire oggettivo e fotografico. Vi è al fondo di questa ricerca di oggettività quella stessa ambizione a cogliere le cose come sono, nel loro aspetto più autentico, che ha guidato molti fotografi (soprattutto in passato) e che i ragazzi, smaliziati conoscitori del linguaggio fotografico in quanto fotografi e ritrattisti seriali, riconoscono come ingenua: invece, è facilissimo mentire in fotografia, non solo volontariamente ma anche per la soggettività dello sguardo di chi fotografa.
Una vita per decenni
Normalmente (ma non necessariamente, dicevo) accompagno alla presentazione delle foto la costruzione di un profilo biografico dell’autore che, nelle mie intenzioni, è sintetico ma ha anche un taglio preciso. Come se stessi allestendo una docufiction. Nel caso di Verga, il compito è facile: la sua vita è appassionante ed è suddivisibile per decenni passando dall’uno all’altro dei quali cambiano attività e scenari geografici (gli anni Sessanta e Firenze, gli anni Settanta e Milano, gli anni Ottanta e il verismo...). Gli agganci agli interessi dei ragazzi, mi insegnano loro stessi con i loro interventi, sono molti: la scelta di Verga di essere convintamente italiano in un periodo in cui un giovane meridionale di buona famiglia poteva anche orientarsi diversamente, la riflessione su che cosa significhi essere italiani quindi, cioè appartenenti a una comunità nazionale che è tale, storicamente, prima sotto il profilo culturale e linguistico e dopo sotto quello politico, l’italianità per loro (e per me) di diritto per chi studia in Italia, indipendentemente da dove è nato o sono nati i suoi genitori; l’andirivieni di Verga fra periferia e centro, più che fra sud e nord, e i vantaggi dell’una e dell’altro; la stasi finale, nella vita dello scrittore, il ritiro (sdegnoso?), la svolta conservatrice e la morte, di cui andiamo a cercare i motivi, superando quella specie di pudore silenzioso sui decessi degli autori che sembra caratterizzare le storie della letteratura (e, invece, in classe, le morti a noi interessano, non per necrofilia ma perché non ci piacciono i finali aperti, sicuramente non piacciono agli adolescenti, come ho imparato dalla loro frequentazione e da alcune letture, per esempio Cercando Alaska di John Green, autore che è stato e sta tornando di moda).
Lector (lectrix) in aula
E vengo al punto. Ineludibile, necessaria nella lezione di letteratura è la presentazione e la lettura dei testi alla classe. Nel romanzo I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift compaiono a un certo punto i personaggi dei sapienti che, per non avere l’incombenza di nominare le cose, viaggiano con un sacco pieno di oggetti e ogni volta che vogliono parlare di uno di essi lo tolgono dal sacco e lo mostrano. Io faccio una operazione inversa: ogni volta che il manuale nomina un oggetto letterario interessante, lo tiro fuori dalla borsa e lo mostro. Vita dei campi, raccolta di novelle: tac, libro estratto dalla borsa. Novelle rusticane, sempre raccolta di novelle: medesima operazione. I Malavoglia, romanzo: vedi sopra. Non è pedanteria, è invece consapevolezza del fatto che il mio pubblico non ha affatto idea o ha un’idea assai approssimativa (e comunque sempre perfezionabile, anche quando è già presente) di che cosa sia una raccolta di novelle. E spesso, anche di che cosa sia un romanzo. Secondo me, onestà e spirito didattico esigono che si spieghi il nuovo, quando lo si nomina. Che utilità hanno le etichette che non rimandano a nulla o, per dirla diversamente, le parole senza referente?
La compresenza di più novelle in una raccolta, l’avvicendamento dei temi, la scelta dei titoli dicono molto dell’opera e del suo autore. La mole dei Malavoglia o quella, più ragguardevole, del Mastro don Gesualdo, la scelta tradizionalista di numerare i capitoli quando di lì a poco autori come Pirandello e Svevo daranno a essi dei titoli veri e propri, mostrando una sensibilità nuova per l’esigenza del pubblico di capire subito che cosa leggerà, dicono molto dei romanzi di Verga. Dicono tanto anche del loro immeritato insuccesso di vendite. Ragazze e ragazzi sono molto sensibili, per come sono stati cresciuti, al tema del successo e dell’insuccesso: il fiasco editoriale dei Malavoglia li colpisce. Il fatto che Mastro don Gesualdo, uscito nello stesso anno del Piacere di d’Annunzio, che conosceranno, venda poco, li stupisce: «Ma come?», «E perché studiamo Verga a scuola, allora?», «Povero Verga».
Dell’opera prescelta leggo ad alta voce ampie parti in classe. Normalmente inizio a leggere Vita dei campi dall’Amante di Gramigna (senza prefazione). Poi le classi, a seconda di come sono, mi portano verso Rosso Malpelo, verso La Lupa… dipende dal fatto che gli interessi degli ascoltatori siano sociali (colgono nella vicenda narrata dalla prima novella soprattutto l’aspetto della lotta fra briganti e forze dell’ordine) o intimisti (rimangono colpiti dal personaggio di Peppa, dalla sua profonda fascinazione per la forza maschile). Leggo spesso io perché leggo con intenzione e consapevolezza: conosco le tecniche della lettura ad alta voce e so che cosa leggo. Ho anche cura di organizzare corsi di lettura ad alta voce per le classi e, a volte, uso i dispositivi audio dei manuali. Ma alcuni autori preferisco leggerli io. Di Verga è importante, a mio parere, che i ragazzi conservino una memoria “tonale”. Che avvertano, già all’ascolto, la presenza, in alcuni casi addirittura prepotente, di una voce (popolare, si dice, e comunque ignorante e supponente) che si arroga il diritto di raccontare e interpretare i fatti a suo modo. E sentano come tale voce (che evidentemente non è quella dello scrittore, quella persona così fine che abbiamo visto in fotografia) a volte ceda la parola ad altri, ai personaggi, le cui parole si mischiano alle sue (è il famoso indiretto libero verghiano). Se avvertono questo, hanno capito già molto di una letteratura che sperimenta delle voci perché ci sono cose che un autore colto, Verga, ha la necessità di far dire ad altri. Per esempio, che cosa rappresenti una figura come la gnà Pina, la Lupa, in una piccola comunità di paese.
Le opere e i libri
Ho parlato, volutamente, più spesso di opere che di libri. Non c’è mai stata coincidenza fra le due parole e ora, in un’epoca di riproducibilità digitale della letteratura, il divario si rende più manifesto. Le biblioteche (raccolte di libri) sono soggette a un processo di dematerializzazione e, morti i libri, dovrebbero rimanere le opere che, per fortuna, sopravvivono alla fine della loro versione cartacea assumendo altre forme. Da un lato, conoscere i libri, nella loro realtà oggettuale e finché è possibile, è utile e doveroso per le classi. D’altro lato è però utile sapere che una novella di Verga rimane tale se letta in rete. Si tratta di quella sopravvivenza della letteratura ai suoi supporti materiali che non finisce mai di emozionare e che, per esempio, lo scrittore israeliano Etgar Keret dice di aver scoperto per caso: il fratello di Etgar usò la stampata del suo primo racconto per raccogliere gli escrementi del cane, ma il racconto continuava a esistere e lui continuava a esserne l’autore. Miracolo.
Questa deviazione del discorso mi serve per arrivare a un punto che ritengo cruciale: la nostra voce, la voce di noi insegnanti che leggiamo una novella di Verga in classe è una forma di esistenza, una delle tante, della novella; questa specifica forma ha però un valore straordinario nella vita di ragazzi e ragazze che, per motivi anagrafici, hanno una visione della letteratura esposta alla superficialità e all’oblio. Ben venga quindi una versione orale di un testo letterario che corra il rischio benefico, se l’ascolto è stato partecipe e condiviso, di depositarsi nell’esperienza.
Ascoltare. Farsi ascoltare. Come ho cercato di spiegare, la lezione di letteratura italiana può passare da qui. «Ricorderete la mia voce che legge Verga?» ho la debolezza di chiedere ogni tanto. «Certo prof, ce la ricorderemo, tranquilla» è la risposta. Potrei spiegare che io sono davvero tranquilla, in classe, perché sono esattamente dove ho scelto di essere. Potrei spiegare anche che la mia domanda non è oziosa, ha a che fare con un’esigenza di autoverifica. Più giustamente, però, taccio. Sono lì per ascoltare.
Referenze iconografiche: Michael Dwyer / Alamy Stock Photo