Libia, Sinai, Egitto
I cambi di regime pilotati dall’esterno, anche quando legittimi, non sono semplici. Lo dimostra la transizione fallita in Libia. L’intervento aereo di potenze europee desiderose di cambiare gli equilibri nelle forniture energetiche del paese è risultato decisivo per il successo dell’insurrezione cominciata nel febbraio del 2011 contro la dittatura di Muhammar Gheddafi. Il piano internazionale era che elezioni e democrazia inclusiva avrebbero seguito la sua destituzione. Oggi la Libia è in mano a bande armate comandate da ex ribelli che gestiscono traffici di armi e di esseri umani. I paesi confinanti temono che essa diventi un retroterra di gruppi che professano la jihad contro l’Occidente e i suoi alleati. Lo teme specialmente l’Egitto, alle prese con l’estremismo nella propria periferia orientale.
Nella penisola del Sinai, compressa tra Israele, il mar Rosso e il Canale di Suez, è attivo infatti Ansar Bait al-Maqdis, un gruppo che si è reso responsabile di attentati contro soldati egiziani e turisti, di missili sparati contro Israele e di attentati al Cairo.
I generali rimasti in carica dopo Hosni Mubarak hanno gestito male il vuoto di potere seguito alla rivoluzione, il riemergere del movimento dei Fratelli Musulmani, il discutibile anno di governo di Mohamed Morsi, uscito dalle elezioni, e infine le conseguenze del colpo di stato del luglio 2013. Il sangue versato in due anni e mezzo, a piazza Tahrir e nelle province interne, è finito nell’imbuto di una restaurazione militare che ha rimesso l’Egitto al fianco dei governi di Washington, Gerusalemme e Bruxelles contro l’avanzata dell’islam estremo. La linea “occidentale” è che quanto sta accadendo nel grande Medio Oriente sia causato da una sorta di “cancro islamico”, da “leader folli” e da “paesi canaglia”, tipo l’Iran. Queste sono le metafore spesso usate dalla stampa e da uomini politici per descrivere l’emergenza in corso. Le dichiarazioni fanno appello a una lotta senza quartiere al terrorismo globale.
La nuova guerra tra Hamas e Israele
Questo è il messaggio diffuso dalle autorità di Israele durante l’estate di sangue vissuta a Gaza. «Hamas è Isis e Isis è Hamas» ripete il premier, Benjamin Netanyahu. La minaccia posta alla sicurezza dei cittadini israeliani dallo Harakat Al Muqawama Al Islamiyya (Hamas, Movimento di resistenza islamico) è certamente reale. In una cinquantina di giorni di conflitto, quasi 4 mila razzi a corto, medio e lungo raggio vengono sparati verso Israele uccidendo tre civili (un altro, un bambino, è vittima di un colpo di mortaio).
Si stima siano un terzo dell’arsenale a disposizione del braccio armato del movimento, le Brigate Ezzedine Al-Qassam. Quasi tutti i lanci diretti verso aree abitate vengono intercettati dal sistema di difesa antimissile Cupola di Ferro (Kipat Barzel in ebraico, Iron Dome in inglese), al punto che molti in Israele non corrono neanche nei rifugi.
Hamas si è armato attraverso le gallerie sotterranee che collegavano la Striscia di Gaza all’Egitto fino a un anno fa, quando la restaurazione in Egitto le ha chiuse. Le Brigate Qassam contano però anche su centinaia di tunnel scavati sotto il confine orientale e quello settentrionale di Gaza. Dal 17 luglio, quando l’operazione Margine di protezione, lanciata da Israele per riportare la calma, affianca ai bombardamenti dal cielo e dal mare un’invasione di terra con l’obiettivo di chiudere i tunnel, l’arma sotterranea di Hamas si dimostra letale. Per settimane, unità di miliziani penetrano in Israele, o dietro le linee dell’IDF (le Forze di Difesa Israeliane, Israel Defense Forces) dentro la Striscia, riuscendo a tendere imboscate con armi ed esplosivi. Quando non usano i tunnel, le Brigate Qassam fermano carri armati e fanteria corazzata facendo detonare a distanza barili bomba sistemati sotto terra o impiegando forze speciali e cecchini addestrati all’estero. Hamas da movimento votato per statuto alla liberazione armata della Palestina si è evoluto negli ultimi due anni in un movimento di guerriglia urbana.
L’operazione Margine di protezione si è chiusa il 26 agosto 2014 al prezzo di oltre 2100 palestinesi morti (oltre la metà donne, bambini e civili, secondo i dati raccolti dalle Nazioni Unite), 11 mila feriti e di 65 soldati e 4 civili uccisi in Israele. È il bilancio peggiore della storia dei conflitti tra Israele e Hamas. Le operazioni precedenti, Piombo Fuso (dicembre 2008-gennaio 2009), che pure aveva incluso un’operazione di terra, e Pilastro di Difesa (novembre 2012), complessivamente avevano causato meno danni.
Come si è arrivati a tanto? La prima risposta è che Hamas non è IS, vale a dire un gruppo di mercenari ben finanziati e terroristi improvvisati guidati da sceicchi che propagandano un improbabile califfato. L’agenda politica e la genesi di Hamas hanno radici profonde nel conflitto israelo-palestinese, che precede l’11 settembre, l’entrata in scena di Bin Laden e del terrorismo globale, la proliferazione delle primavere arabe e della militanza islamica armata in Siria, Iraq, Libia ed Egitto. Lo scontro tra nazionalismo ebreo e palestinese ha una storia che percorre il Novecento e i secoli precedenti.
Il casus belli del 12 giugno
La guerra del 2014 ne è l’ennesimo capitolo. Il casus belli arriva il 12 giugno. Eyal Yifrah (19 anni), Gilad Shaer e Naftali Fraenkel (16 anni), tre studenti di una scuola religiosa in Cisgiordania, vengono rapiti dopo avere fatto l’autostop nei pressi dell’insediamento ebraico di Gush Etzion, tra le città palestinesi di Betlemme e Hebron. Nelle tre settimane che precedono il ritrovamento dei loro cadaveri, l’IDF rastrella intere aree della Cisgiordania, arresta centinaia di persone e ne uccide cinque che protestano contro i soldati. Non è ancora chiaro a chi attribuire il rapimento – “cani sciolti”, una potente famiglia di Hebron, una cellula solitaria di terroristi? – eppure il governo israeliano accusa sin dal principio Hamas, i cui leader smentiscono di avere dato ordini del genere. Qualche giornalista ipotizza che la morte dei tre ragazzi fosse nota al governo e ai servizi di sicurezza sin dal principio e che la massiccia operazione di ricerca sia stata condotta per azzerare la possibile militanza armata in Cisgiordania, sebbene a danno di migliaia di case e famiglie palestinesi che vengono perquisite senza alcuna colpa o accusa formale. È molto difficile verificare questa ipotesi.
Certo è invece che l’attesa di notizie su Eyal, Gilad e Naftali nella seconda metà di giugno produce altri effetti. I colloqui di pace tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese, mediati dal segretario di stato americano John Kerry per nove mesi, finiscono rapidamente. In Israele crescono le richieste di una guerra finale con Hamas reo, dopo il ritiro unilaterale israeliano nel 2005, di avere trasformato Gaza in una base di attacco anziché in un luogo prospero. Pochi ricordano che, a seguito della presa in ostaggio del soldato Gilad Shalit e del colpo di stato di Hamas nella striscia nei due anni successivi, Gaza è sottoposta a un blocco navale e un embargo alle frontiere israeliana ed egiziana che non permette una vita normale a 1,8 milioni di abitanti. Entra a Gaza solo il minimo necessario di cibo e materiali, non esce praticamente nessuno da anni. Molti ignorano che, persi gli alleati vecchi (Iran) e nuovi (Egitto) e i tunnel per le armi, Hamas a inizio giugno ha accettato senza condizioni un governo unitario con Fatah, il partito guidato dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, cacciato con la forza sette anni fa da Gaza. Il sostegno minimo a Hamas nella Striscia, afflitta da una pessima economia e dal malgoverno del movimento, sembra piuttosto l’occasione per regolare politicamente la minaccia di Gaza.
La “legittima difesa” di Israele
All’estero cresce il consenso a un’azione di forza israeliana che, dopo il 30 giugno, ritrovati morti i ragazzi, diventa “legittima difesa”. Tale non è certamente, due giorni dopo, il rapimento di un sedicenne palestinese, Mohammad Abu Khdeir, che viene bruciato vivo a Gerusalemme. A distanza di settimane, saranno arrestati e incarcerati tre coloni, un adulto e due minorenni.
L’omicidio di Mohammad moltiplica la tensione a Hebron, Gerusalemme, Nablus. Ramallah e i razzi sparati dalle fazioni armate di Gaza, Hamas e Jihad Islamica in testa. Partono i raid di Israele, ufficializzati l’8 luglio con l’avvio di Margine di Protezione. È la solita guerra asimmetrica: aviazione, artiglieria e marina di uno dei maggiori eserciti al mondo contro un movimento armato che opera all’interno di una lingua di terra lunga 40 km e larga in media 10, affollata da una popolazione civile cui il blocco della costa e dei valichi non consente di fuggire. La guerra è una linea rossa che, dopo il 1945, le Nazioni Unite hanno deciso di non oltrepassare o di farlo solo a certe condizioni. Limiti e regole tuttavia diventano scivolosi durante le ostilità e così la maniera di accertarne le violazioni e le relative responsabilità. La storia recente è piena di casi. Purtroppo, la guerra alla fine si combatte come si può o come si decide di fare.
La distruzione di Gaza e il consenso di Hamas
I bombardamenti israeliani sono mirati, calcolati per “minimizzare i rischi ai civili” garantisce l’IDF, ma investono sia aree largamente popolate ai confini sia centinaia di obiettivi distribuiti all’interno della Striscia. Gli avvertimenti con sms, telefonate e volantini ai residenti non danno abbastanza tempo o abbastanza ragioni a donne, bambini e anziani per lasciare le proprie case e rifugiarsi altrove. Compare anche l’avvertimento con missili drone, che “bussano” ai tetti per notificare un bombardamento imminente e a volte già uccidono. Al principio la gente rimane a casa, i bombardamenti a volte sono annunciati, a volte no. Quasi mezzo milione di persone in totale lascerà le proprie abitazioni. Si tratta di un quarto della popolazione di Gaza. Ma tutti si chiedono: esiste un posto sicuro dove andare? Diverse scuole delle Nazioni Unite, aperte ai profughi, vengono colpite causando decine di vittime. Lo stesso accade agli ospedali. I bombardamenti che precedono e seguono le incursioni di terra fanno stragi di civili a Shijaya, Kuza’a, Beit Hanoun e Rafah.
Con la guerra, il consenso per Hamas a Gaza sale alle stelle, così come il sostegno a Netanyahu in Israele, un paese profondamente diviso che si compatta però nell’ora della sopravvivenza. Hamas non è più il governo inefficiente per la popolazione della Striscia. È l’unico esercito a disposizione per difendersi. Anche dal punto di vista del diritto internazionale, la guerra trasforma le Brigate Qassam da “terroristi” che sparano razzi contro civili israeliani a “combattenti”, che contrastano un’invasione dell’esercito israeliano. I miliziani combattono, sparano razzi ovunque, nel groviglio di cemento ed esseri umani che è Gaza: campi agricoli, strade, hotel, moschee, ospedali e scuole. In Israele montano le accuse a Hamas sull’uso di “scudi umani”, che incrementerebbe di proposito le morti di civili innocenti coinvolti loro malgrado. Ma, di fatto, i valichi di frontiera non sono stati aperti, come avvenuto, per esempio, per milioni di siriani. Sarà una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite a giudicare la legittimità degli obiettivi colpiti in questo conflitto (civili o militari) e la proporzionalità della forza impiegata per raggiungere un determinato vantaggio militare rispetto al danno collaterale prodotto. E, conseguentemente, a valutare gli eventuali crimini di guerra commessi da Israele e da Hamas.
I negoziati senza accordo politico
A Gaza in quasi due mesi si sono accumulate distruzione e disperazione paragonabili a quelle lasciate da un terremoto. Circa 50 mila case sono state danneggiate, gran parte delle infrastrutture civili è fuori uso. I negoziati tra i contendenti che si sono tenuti al Cairo hanno raggiunto cessate il fuoco temporanei e poi quello definitivo, il 26 agosto. Nessun accordo politico però è stato trovato. Se ne discuterà ancora e la tregua potrebbe ricalcare quella che ha chiuso la guerra del 2012, che prevedeva la rimozione dell’embargo e l’estensione dell’area di pesca lungo la costa, ma che non ha impedito la guerra successiva.
Il governo Netanyahu ha perso il supporto di chi ha capito che i tunnel potrebbero essere facilmente ripristinati e che Hamas è stato solo indebolito, ma non finito. Per Hamas, invece, sarà complicato rimettersi in piedi senza approvvigionamenti e con la perdita dei leader militari uccisi, a fronte di gente che chiederà con forza normalità, con il probabile ritorno a Gaza dell’Autorità Nazionale Palestinese e di osservatori internazionali incaricati di monitorare l’allentamento dell’embargo. La demilitarizzazione di Gaza e l’eliminazione totale dei blocchi, i due obiettivi dichiarati rispettivamente da Israele e da Hamas, sono fuori dalla discussione reale. È legittimo chiedersi a che cosa sia servito il conflitto del 2014. A meno di concludere che la strategia e l’economia della guerra sono la prima scelta di chi governa per guadagnare consenso in un mondo instabile, che predilige la difesa militare al coraggio politico delle concessioni.