Crisi e malessere democratico
Nell’ultimo decennio, le immagini più frequenti adoperate dagli studiosi per descrivere lo stato di salute dei sistemi democratico-rappresentativi hanno avuto un carattere “clinico”, facendo riferimento a crisi, malesseri e patologie di vario genere. Significativo il titolo di un volume di Luigi Di Gregorio, Demopatia. Sintomi, diagnosi e terapie di un malessere democratico. Il grande malato è, chiaramente, la democrazia rappresentativa, quella basata su partiti, elezioni, parlamenti. Tra gli studiosi che hanno sferrato gli attacchi più lucidi al sistema rappresentativo vi è lo statunitense Jason Brennan, il quale, in un volume dal titolo inequivocabile Contro la democrazia, ha distinto tre grandi categorie di elettori: “hobbit”, “hooligan” e “vulcaniani”. I primi sono quelli apatici e ignoranti di politica, che mancano di idee forti, non seguono con particolare attenzione gli eventi politici e preferiscono dedicarsi alle questioni della loro vita di ogni giorno. “Hooligan” è invece colui che vive la politica allo stesso modo del tifo sportivo; ha una visione del mondo rigida, ne difende con fervore le ragioni e respinge aprioristicamente tutti i punti di vista alternativi. “Vulcaniano”, infine, è l’elettore che pensa razionalmente alla politica; le sue idee si basano sulle scienze sociali e sulla filosofia; è in grado di comprendere e spiegare molteplici punti di vista e non pensa che tutti coloro che hanno opinioni diverse dalle sue siano stupidi. Sebbene si tratti di “tipi ideali” (nessuno, ad esempio, è puramente e semplicemente vulcaniano), Brennan sostiene che si possa facilmente osservare come, tra gli elettori delle moderne democrazie, prevalgano le tendenze a comportarsi da hobbit o da hooligan e che per questo ogni “trionfalismo democratico” sia ingiustificato. L’autore suggerisce, pertanto, una soluzione antidemocratica: egli ritiene che la partecipazione politica non sia adatta a tutti e che il diritto di voto non dovrebbe essere esteso come le “libertà civili”, quali quelle di parola, di credo religioso e di associazione. Il suffragio universale, a suo avviso, consente agli elettori di prendere decisioni su basi di ignoranza o di irrazionalità, decisioni i cui effetti, però, ricadono poi su tutti. Analogamente a molti liberali antidemocratici del passato, Brennan conclude il proprio ragionamento proponendo una correzione “elitistica” del sistema politico, basata sulla “competenza”.
Il ritorno della “democrazia diretta”
Pur condividendo con Brennan la diagnosi sui “difetti” della democrazia rappresentativa, molti studiosi si discostano dalle sue tesi per quanto riguarda i rimedi. Nei dibattiti tra scienziati politici, così come nei programmi dei leader, dei movimenti e dei partiti “populisti”, sono emerse in anni recenti prospettive che si ispirano a teorie ed esperienze storiche alternative al sistema parlamentare rappresentativo e alla “intermediazione” dei partiti che lo connota. In questa direzione, non di rado si è invocato il ritorno a forme di “democrazia diretta”. Il richiamo è alla “democrazia degli antichi” e all’autogoverno del demos nella polis greca prima della fine del V secolo a.C., vista come modello di concezione “estrema”, “ultrademocratica”, di democrazia, connotata dalla “sovranità popolare” più che dal “governo della legge”, dalla politica come “movimento” più che dalla sua “istituzionalizzazione”.
Nell’ultimo decennio, tale richiamo alla democrazia diretta si è spesso associato all’idea delle potenzialità offerte, in tal senso, dalla rete informatica. Diversi movimenti politici hanno voluto offrire, infatti, ai propri sostenitori dispositivi di partecipazione che li rendessero “attivi”, e che consentissero così di superare la passività imposta loro dai partiti tradizionali. Nel 2009 il movimento conservatore-libertario statunitense dei Tea Party, ad esempio, ricorse a forum online e a gruppi su Facebook. Esso nacque in opposizione alle politiche “stataliste” del presidente democratico Barack Obama e vi si oppose richiamandosi alla storica ribellione di fine Settecento dei coloni bostoniani contro le istituzioni della madrepatria britannica. Il nuovo Tea Party intendeva analogamente innescare una rivolta popolare contro il nuovo potere “monarchico”, quello del governo federale, chiamando dunque gli americani a lottare per la difesa della libertà individuale. Non ritenendo che queste idee fossero effettivamente ed efficacemente sostenute dal Partito repubblicano, il Tea Party si propose come un movimento grassroots, dal basso, espressione diretta dei cittadini, al di fuori dei partiti, e per mobilitarli ricorse agli strumenti del web.
Sempre nel 2009, fu poi la volta della fondazione in Italia del Movimento 5 Stelle da parte di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Anche in questo caso, si trattava di un’organizzazione che contestava il sistema parlamentare e partitico e che, in tale prospettiva, faceva ampiamente ricorso a Internet e ai social media come presupposti per delineare il progetto di una e-democracy: la realizzazione, in altre parole, della democrazia diretta attraverso la rete. Si spinse molto avanti in quella stessa direzione il movimento-partito spagnolo Podemos, in particolare attraverso la piattaforma Loomio. Giunse infine, nel 2015, Donald Trump: mentre, però, rimaneva essenziale l’uso dei social media per creare un rapporto “diretto” con l’elettore, scompariva del tutto nella sua campagna elettorale ogni riferimento, sia pure vago, alla democrazia diretta. Restava la sola “comunicazione diretta” del leader, con l’illusione dell’immediatezza, in mancanza dell’intermediazione del partito. Anche le “votazioni online” introdotte in diversi paesi da movimenti e partiti, peraltro, risultano problematiche come forme genuine di democrazia diretta, in quanto spesso assomigliano più a plebisciti (mere manifestazioni di approvazione o disapprovazione) che a pratiche autenticamente democratiche.
Dalla “democrazia partecipativa” alle “assemblee” del Sessantotto
Nel dibattito politico, in alternativa alla democrazia diretta è emersa l’idea della “democrazia partecipativa”. Essa è erede, innanzitutto, di dottrine e pratiche associative e consiliari del XIX secolo e dei primi decenni del XX. Un “modello” fu offerto in tal senso, sia pure per pochi mesi, dalla Comune di Parigi. Cruciale fu, poi, l’esperienza dei Soviet russi, nell’ottica di una democrazia “proletaria” alternativa a quella basata sulla rappresentanza parlamentare. Significative furono, da questo punto di vista, le tesi dell’esponente della sinistra olandese Anton Pannekoek, tra l’inizio del Novecento e gli anni Quaranta, contro le forme di “delega” del potere e di suo esercizio “dall’alto”, in favore dell’autogoverno attraverso il sistema dei “consigli”, incentrato non sulla responsabilità di una collettività anonima, bensì sulla partecipazione e sull’autonomia di pensiero di ogni singola persona.
Negli Stati Uniti di primo Novecento, intanto, erano emersi, nel quadro dell’età progressista, progetti di riforma della democrazia attraverso l’iniziativa di gruppi, associazioni volontarie, comunità locali e legami collettivi, fondamentali per l’affermazione di un’autentica cittadinanza attiva. In quest’ottica, il filosofo John Dewey auspicò la sostituzione del «vecchio individualismo» liberale con uno di tipo «nuovo», derivante da relazioni sociali e comunitarie. L’introduzione dell’espressione “democrazia partecipativa” nel linguaggio accademico avvenne nel 1960, ad opera di Arnold S. Kaufman, seguace di Dewey all’Università del Michigan, e si diffuse pochi anni dopo grazie ai grandi movimenti studenteschi, a partire nel 1962 dal Port Huron Statement, manifesto politico degli Students for a Democratic Society (SDS). Il loro primo raduno, a cui era presente anche Kaufman, avvenne a Port Huron, località del Wisconsin, dall’11 al 15 giugno del 1962. I giovani radicali si battevano per una nuova coscienza politica e per l’impegno nella vita pubblica; in tal senso si ispiravano liberamente alla filosofia esistenzialista francese, e in particolare ad Albert Camus, per insistere sulla necessità di “prendere posizione” e di atti morali di scelta che consentissero di uscire dall’apatia e dall’indifferenza.
Il Port Huron Statement spiegava che la “democrazia partecipativa” si sarebbe dovuta poggiare su alcuni basilari principi: un’immagine dell’uomo incentrata sul potenziale dello sviluppo delle capacità personali e contrapposta alla classica tesi dell’intrinseca incompetenza delle persone comuni e della loro conseguente inadeguatezza all’esercizio collettivo del potere; l’idea dell’indipendenza e dell’autodeterminazione individuale (da non intendersi, però, come individualismo egoistico) e nel contempo della fratellanza quali fattori essenziali delle relazioni sociali; il proposito di prendere le decisioni riguardanti la vita comune in pubblico e in modo condiviso. Partendo da questi presupposti, si sarebbe potuta sostituire, secondo gli SDS, una forma di potere incentrata sul possesso e sul privilegio con una basata, invece, su “amore, riflessività, ragione e creatività”.
Gli ideali partecipativi contribuirono a ispirare, due anni dopo, nel campus di Berkeley in California, la mobilitazione studentesca coordinata dal Free Speech Movement (FSM), contro la struttura autoritaria e burocratica dell’università e contro la segregazione razziale. Approdarono, poi, all’esperienza dei “movimenti collettivi” in Europa. Dopo il movimento studentesco statunitense, dunque, nel 1967 fu la volta, in Europa, di quello italiano, con i sit-in e le assemblee nella facoltà di Sociologia a Trento, seguiti dalle agitazioni all’Università Cattolica di Milano e dall’occupazione, a Torino, di Palazzo Campana, sede centrale dell’ateneo locale. Nel 1968 quelle forme di protesta si estesero ad altre università italiane, seguite dal “maggio francese” e dalla Sorbona occupata, presto descritta come una sorta di “nuova Comune di Parigi”.
Il modello organizzativo degli studenti europei, tuttavia, fu raramente descritto come democrazia “partecipativa”; si adoperarono invece altre espressioni, come democrazia “di base” e “assembleare”, non senza richiami a quella “diretta”. A prevalere fu soprattutto, negli stessi resoconti giornalistici dell’epoca, l’idea di “assemblearismo”. Le decisioni collettive, infatti, erano prese nelle assemblee degli studenti, aperte a chiunque volesse partecipare e nelle quali, teoricamente, dovevano essere considerati leader semplicemente coloro che mettevano le maggiori energie nell’azione collettiva.
Democrazia deliberativa
A partire dagli anni Ottanta, al concetto di democrazia partecipativa si affiancò, nel lessico della scienza politica, quello di democrazia “deliberativa”. Essa delineava un modello maggiormente “discorsivo”, in base al quale, invece di “contare” le preferenze individuali, si doveva porre i partecipanti nelle condizioni di confrontare ragioni e scambiarsi argomenti, con l’obiettivo di ottenere, così, il consenso razionale intorno a soluzioni condivise. In altre parole, mentre la nozione di “democrazia partecipativa” poneva l’accento sull’espressione diretta della propria volontà da parte dei cittadini per decidere sul bene comune, la “democrazia deliberativa” era focalizzata sulle modalità del dibattito razionale che avrebbe dovuto precedere le decisioni pubbliche. Il problema di questo modello era, tuttavia, una certa astrattezza, presupponendo dei puri soggetti razionali come partecipanti e privilegiando, su questa base, il consenso a cui essi sarebbero dovuti necessariamente giungere, rispetto al dissenso e alla contrapposizione.
Nel 1984 il politologo statunitense Benjamin R. Barber, nel volume Strong democracy (1984), recuperò, invece, il modello “partecipativo”, contrapponendo, su tale base, una strong democracy a quella liberale rappresentativa tradizionale. Nei grandi Stati nazionali, a suo giudizio, la delega ai rappresentanti garantiva efficienza, a discapito, però, della partecipazione e della cittadinanza attiva, con una conseguente debilitazione profonda degli autentici ideali democratici. Per altro verso, dall’ipotesi di circoscrivere le decisioni politiche, per consentire la partecipazione, alla dimensione locale, il rischio, secondo Barber, era quello del “parrocchialismo”: ogni comunità, in altre parole, avrebbe finito con l’essere autocentrata, sentendosi autonoma e auto-sufficiente. La conclusione dell’autore era che la democrazia necessitasse di “ingredienti partecipativi” nelle formule costituzionali, per correggere e riorientare, in tal modo, la democrazia liberale con un maggiore coinvolgimento civico.
A vent’anni dal 1968, il fascino della democrazia partecipativa tornò in auge con l’esperimento del “bilancio partecipativo”, inaugurato a Porto Alegre. Nella metropoli brasiliana, nel 1989, si iniziò a consentire ai cittadini, riuniti in piccole assemblee, di decidere su come investire il denaro pubblico. Lo spirito di fondo dell’iniziativa era di ridurre, in tal modo, clientelismo e corruzione, dando voce alle persone comuni e inducendole a occuparsi del bene collettivo. Pratiche simili a quelle di Porto Alegre sono state, poi, più volte riformulate e riproposte: dalle assemblee cittadine (town meetings) alle consultazioni condotte per via informatica.
Il problema della riattivazione della cittadinanza, espresso a Port Huron nel 1962, resta, dunque, più che mai importante nell’era della globalizzazione, nella quale spesso prevalgono, invece, per un verso l’apatia politica e per altro verso la sua “emotivizzazione” da parte dei leader.