Rappresentazione e realtà dell’immigrazione
La crisi economica sta condizionando le strategie dei migranti, e in modo particolare i nuovi arrivi. Mentre per circa trent’anni il mercato ha assorbito manodopera immigrata, obbligando governi di ogni colore a varare ben sette sanatorie in 25 anni, ora il sistema economico sta comunicando il messaggio che nella fase attuale non ha bisogno di nuovi lavoratori. Persino i ricongiungimenti familiari risentono dell’avversa congiuntura economica e le stesse nascite da genitori immigrati sono leggermente calate negli ultimi anni: erano 80.000 nel 2012, sono scese a 69.000 nel 2016. L’immigrazione in Italia nel suo complesso sta cercando di resistere alla persistente crisi economica e di mantenere per quanto possibile l’insediamento costruito negli anni precedenti.
Un problema su cui riflettere è dunque la divaricazione tra realtà e rappresentazione, l’attenzione selettiva verso una sola componente dei processi migratori, quella dei rifugiati, la confusione tra asilo e immigrazione in generale. Arrivi molto visibili, certo drammatici ma anche drammatizzati, hanno occupato il centro della scena, offuscando le altre componenti, molto più rilevanti, di un universo complesso e sfaccettato come quello delle migrazioni. Per dare qualche termine di paragone, a fronte di 350.000 rifugiati, gli immigrati titolari di partita IVA sono circa 570.000, le persone che lavorano presso le famiglie italiane sono stimate in circa 1,6 milioni, i cittadini stranieri che hanno ottenuto la naturalizzazione hanno raggiunto nel 2015 la cifra di 178.000 e nel 2016 hanno superato i 200.000 (IDOS, 2016; 2017).
Per di più, gli sbarchi solo negli ultimi due anni si stanno traducendo prevalentemente in richieste di asilo in Italia: in precedenza, la maggioranza passava le Alpi per chiedere protezione internazionale in altri paesi. Nel 2014, su 170.000 sbarcati meno di 70.000 avevano richiesto protezione internazionale al nostro governo. Le loro aspirazioni si incontravano con la tradizionale politica italiana in materia: favorire i transiti verso Nord, evitando il più possibile d’impegnarsi nell’assicurare protezione sul territorio nazionale. Poi l’UE ci ha imposto gli hotspots (i centri di identificazione dei migranti), i nostri vicini hanno inasprito i controlli alle frontiere, e le domande di asilo sono cresciute, raggiungendo nel 2016 la cifra di 123.482. La quota rispetto agli sbarchi è passata dal 37% del 2014 al 56% del 2015 al 68% nel 2016. Da qui all’invasione c’è ancora comunque molta strada.
Il governo italiano è stato molto attivo nei salvataggi in mare e le navi della Marina militare e della Guardia costiera hanno l’indubbio merito di aver salvato migliaia di vite umane, con il contributo di navi equipaggiate da organizzazioni umanitarie, da privati cittadini e dalla Marina di altri paesi: un’attività così notevole da aver innescato le note polemiche sui salvataggi in mare da parte delle ONG. Il punto cruciale consiste invece nelle accresciute difficoltà del passaggio verso Nord, giacché i paesi dell’Europa centro-settentrionale fanno pressione perché i rifugiati vengano identificati e accolti nei paesi di primo approdo, anche prelevando forzatamente le impronte digitali presso i cosiddetti hotspots. Gli accordi di redistribuzione faticosamente raggiunti nell’autunno 2015, e non con tutti i paesi membri dell’Unione europea, di fatto finora sono stati onorati pochissimo, con poche migliaia di reinsediamenti.
Poi è arrivata la svolta delle politiche governative nell’estate 2017. Il governo italiano, spalleggiato dall’UE, ha messo sotto controllo le attività delle ONG e stretto accordi con lo Stato libico e con le forze locali. Le partenze dalle coste libiche sono diventate più difficili e la Guardia costiera intercetta le imbarcazioni costringendo i migranti e richiedenti asilo a tornare indietro. Al riparo dai nostri sguardi, dalle telecamere e dal controllo di organizzazioni umanitarie e testimoni esterni, le persone in cerca di asilo vengono detenute in condizioni che tutte le fonti definiscono disumane. Quello che viene presentato e percepito come un “successo” nel controllo dell’immigrazione indesiderata è una tragedia dal punto di vista dei diritti umani. A fine 2017, gli sbarchi sono diminuiti del 34% rispetto al 2016, da 181.436 a 119.310.
Sul territorio italiano, per le persone che, una volta arrivate, hanno presentato domanda di asilo, la gestione del sistema di protezione continua a oscillare tra l’idea di un’“emergenza” da fronteggiare con interventi straordinari e quella di un fenomeno che va affrontato mediante l’allestimento di un “sistema” organico di accoglienza (Marchetti, 2014). Pur con queste precisazioni, l’enfasi sulla necessità di contenere i flussi non deriva da un’analisi obiettiva dei dati, ma dall’impatto che ha sull’opinione pubblica la visione televisiva dei salvataggi, dei naufragi e degli sbarchi sulle coste delle regioni meridionali. Alcuni attori politici si sono impadroniti dell’argomento, facendone materia di polemica e propaganda. D’altro canto, l’approdo dal mare di persone in cerca di asilo ha tutte le caratteristiche per scatenare le ansie e le preoccupazioni delle società riceventi: si tratta di stranieri che arrivano senza chiedere permesso e senza essere stati invitati, non hanno regolari documenti, e per di più una volta sbarcati chiedono assistenza e non possono essere respinti. Il vulnus nei confronti dell’idea di sovranità nazionale, di controllo dei confini e di sicurezza nei confronti di intrusioni dall’esterno non potrebbe essere più clamoroso.
Stiamo per essere sommersi dalla povertà del Terzo mondo?
Anche l’idea largamente diffusa di un nesso diretto tra povertà e migrazioni è ugualmente approssimativa. Certo, le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa: questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.
Nel complesso però i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: rappresentano all’incirca il 3,3% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 244 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani (IDOS, 2016): una persona ogni 33. 76 milioni di essi, pari al 31,4%, risiedono in Europa, che è anche però terra di origine di 59 milioni di emigranti. Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87% nel caso della mobilità africana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti.
In questo scenario, la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze. Le migrazioni sono processi selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in paesi lontani, di cui spesso non si conosce neanche la lingua, di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Di conseguenza, la popolazione in Africa potrà anche aumentare, ma senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non arriverà fino alle nostre coste.
I migranti, dunque, come regola, non provengono dai paesi più poveri del mondo. Certo, gli immigrati arrivano soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Ma questo miglioramento è appunto comparativo, e ha come base una certa dotazione di risorse. Lo mostra, con una certa evidenza, uno sguardo all’elenco dei paesi da cui provengono. Per l’Italia, la graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania (1,2 milioni), Albania (450.000), Marocco (420.000), Cina (280.000), Ucraina (230.000) (IDOS, 2017). Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’Indice di sviluppo umano dell’ONU: un complesso di indicatori che comprende non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitanti. In generale, i migranti provengono prevalentemente da paesi collocati nelle posizioni intermedie della graduatoria. Per esempio negli Stati Uniti di oggi provengono in maggioranza dal Messico.
Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi.
Un caso per certi versi opposto è quello di una categoria di emigranti emersa nel dibattito recente, quella dei rifugiati ambientali. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del Sud del mondo. Ora, è senz’altro vero che ci sono nel mondo popolazioni costrette a spostarsi anche per cause ambientali, direttamente indotte come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocate da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque. Ma le migrazioni difficilmente hanno una sola causa, e le crisi ambientali si sommano semmai ad altre cause di fragilità. Inoltre, che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio. È più probabile che i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo mondo, anziché arrivare in Europa. Va aggiunto che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, in paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50% dell’occupazione complessiva.
Concludendo, vale la pena di ribadire alcuni concetti per intraprendere una seria discussione sulle migrazioni. In primo luogo, non confondere immigrazione e asilo, non mescolare sbarchi e immigrazione. Va ricordato: i richiedenti asilo sono una piccola quota rispetto agli immigrati, e gli sbarchi nemmeno oggi si traducono sempre e immediatamente in richieste di asilo. Chi non presenta domanda di asilo non aspira a una vita da fantasma nel nostro paese, ma cerca di valicare le Alpi. Gli immigrati irregolari, i cosiddetti “clandestini” sono perlopiù donne che lavorano presso le famiglie italiane: talmente utili che riusciamo a scordarcene, quando si tratta di verificare la regolarità del soggiorno.
Secondo: meglio non parlare di immigrazione in generale, ma di categorie specifiche. Se si segmenta la massa amorfa e temuta dell’immigrazione e si focalizza l’attenzione su gruppi ben individuati, almeno una parte delle ansie può sgonfiarsi. È molto più serio discutere di cittadini europei mobili, di studenti, di infermiere, di assistenti familiari dette volgarmente badanti, di investitori, di gente che lavora in occupazioni lasciate scoperte dagli italiani, di persone che fuggono da guerre e persecuzioni. Alla fine dell’esercizio, ci si accorgerà che dell’immigrazione incontenibile e temuta resterà ben poco.
Da ultimo, se bisogna parlare di rifugiati, va ricordato sempre il dato ripetuto incessantemente dalle istituzioni che se ne occupano: l’84% trova asilo in paesi del Terzo mondo, l’Europa in realtà si difende dai propri impegni umanitari.