Lotta all’idolatria e propaganda politica
I video prodotti dall’ISIS sono di solito accompagnati da testi di propaganda che hanno lo scopo di esaltare e motivare le devastazioni compiute. Nel primo video pubblicato e ambientato nel Museo di Mosul, la voce narrante dichiarava: «Queste rovine che sono dietro di me sono idoli e statue che i popoli del passato venerarono al posto di Allah. Il profeta Maometto abbatté gli idoli a mani nude quando giunse alla Mecca. Egli ci ha ordinato di abbattere e distruggere gli idoli e i suoi compagni fecero lo stesso quanto conquistarono queste regioni.» L’uccisione dell’eroico archeologo siriano Khaled al-Asaad, che aveva fatto allontanare i reperti dal Museo di Palmira salvandoli così dalla distruzione, è stata giustificata con la motivazione che costui avrebbe «promosso l’adorazione delle statue». La proibizione delle immagini e la condanna dell’idolatria sono quindi la giustificazione teologica che l’ISIS fornisce per la sua campagna iconoclastica. L’obiettivo è però più ampio e ambizioso: distruggendo gli idoli i militanti ripeterebbero le gesta che l’ISIS stesso attribuisce a Maometto e ai primi califfi. Il fatto che al tempo di costoro i culti degli antichi dèi fossero ancora ben vivi, almeno nella penisola arabica, e che oggi invece si facciano a pezzi reperti e siti musealizzati, privi di fedeli da millenni, non toglie evidentemente efficacia agli occhi dei destinatari dei video; le immagini delle demolizioni consentono infatti di proclamare quel ritorno (fittizio) dei tempi dell’Egira che è essenziale per chi asserisce di aver rifondato il califfato.
A queste motivazioni se ne aggiungono altre: la demolizione di vestigia e reperti assiri, romani e partici ha lo scopo di cancellare completamente il passato preislamico e la memoria stessa della presenza di altri credi religiosi nella regione e infatti procede in parallelo con le persecuzioni dei fedeli di altre confessioni, come i cristiani assiri, gli sciiti o gli yazidi. Si colpiscono inoltre i siti archeologici riscoperti negli ultimi due secoli da archeologi in maggioranza occidentali, considerati colpevoli di aver fatto riemergere gli idoli sepolti da millenni. Questi siti sono anche quelli più visitati dai turisti, anch’essi perlopiù occidentali e fonte di introiti in valuta pregiata, importanti per la sopravvivenza dei regimi contro cui l’ISIS combatte. Insomma, la proclamata lotta all’idolatria nasconde un’ampia gamma di ragioni ideologiche e politiche contingenti.
Furti e spoliazioni
La distruzione del patrimonio culturale in Medio Oriente non sta però avvenendo solamente mediante le demolizioni filmate e diffuse sui media, ma anche per mezzo di traffici, furti e spoliazioni, che sono, del resto, una delle principali attività di sostentamento dell’ISIS stessa, che, da una parte, distrugge i siti archeologici pubblicamente, presentandosi come custode fedele dell’ortodossia islamica, e dall’altra concede di nascosto “permessi” di scavo ai “tombaroli” per finanziarsi. Fin dalla Seconda guerra del golfo e dal saccheggio del Museo di Baghdad nel 2003, il traffico clandestino di reperti di provenienza mediorientale è aumentato moltissimo e rifornisce soprattutto collezionisti nei paesi occidentali e del Golfo approfittando delle legislazioni dei paesi tradizionalmente poco attenti alle “provenienze” degli oggetti d’arte, come gli USA, la Gran Bretagna e la Svizzera. Fotografie satellitari hanno dimostrato che prima delle demolizioni pubbliche intere aree di Palmira erano state devastate da scavatori clandestini che hanno causato danni ingenti al patrimonio culturale locale, non solo depauperandolo, ma anche perché, per facilitare trasporto e vendita, le statue vengono di solito mutilate per portare via solo le teste, meno pesanti e con molto più mercato.
Un confronto con il passato
Non è la prima volta nella storia che distruzioni di opere d’arte sono state giustificate pubblicamente da motivazioni religiose: basti pensare all’iconoclastia, che divise il mondo bizantino tra VIII e IX secolo, oppure al periodo della Riforma nel XVI secolo, quando furono prese di mira diverse immagini cattoliche. Ma il confronto più interessante con quanto accade oggi si osserva nella demolizione di edifici di culto e statue pagane che interessò soprattutto la parte orientale dell’Impero romano tra IV e V secolo. La coincidenza topografica è talora impressionante: a Palmira furono probabilmente i cristiani a distruggere il tempio di Allat, una divinità locale identificata con Atena, ma la statua di leone che rappresentava il consorte di Allat, riscoperta in pezzi nel tempio nel corso degli scavi moderni, è stata di nuovo smembrata dai militanti dell’ISIS nel 2015.
Queste distruzioni furono denunciate dall’oratore pagano Libanio, il quale scrisse all’imperatore Teodosio nel 386 in difesa dei templi siriani, oggetto di attacchi orchestrati da monaci e vescovi. In realtà gli imperatori romano-cristiani emanarono diversi provvedimenti contro la distruzione dei templi e delle statue pagane, purché i primi fossero chiusi e le seconde non fossero più oggetto di culto. L’élite romano-cristiana, abituata a celebrare i grandi artisti greci, non poteva accettare facilmente la distruzione delle loro opere e aveva trovato una “soluzione” trasferendole dai templi, dove erano venerate, ai luoghi pubblici, e nella loro conseguente trasformazione da simulacri in ornamenti delle città, ammirati solo per il loro valore artistico. Lo stesso Costantino e i suoi successori trasferirono a Costantinopoli molti dei capolavori della scultura antica, come lo Zeus Olimpio e l’Atena Parthenos di Fidia o l’Afrodite Cnidia di Prassitele: rotto il legame che avevano con i sacrifici cruenti, queste statue potevano servire per abbellire la capitale cristiana, che si trasformò così in una sorta di museo dell’arte greca. Molte di esse sopravvissero fino al 1204, quando furono i crociati latini a distruggerle per recuperarne i materiali.
Il Serapeo di Alessandria
Tuttavia, nelle grandi città orientali alla fine del IV secolo gli attacchi agli antichi dèi prevalsero e, allora come oggi, furono i distruttori stessi a dare un’enorme pubblicità agli effetti delle demolizioni. Lasciamo la parola a Rufino (345-411) che nella sua Storia ecclesiastica (2.23) descrive così la distruzione della statua di culto di Serapide, un’opera di Briasside, avvenuta ad Alessandria nel 391 per volere del vescovo Teofilo: «Così, con colpi ripetuti, ha abbattuto la divinità fatta di fumo e di legno marcio tarlato, che dopo essere stata buttata giù, bruciò così facilmente come legna secca. Dopo che la testa fu strappata dal collo, il modius (ndr. il copricapo del dio) fu tirato giù e trascinato via; poi i piedi e le altre membra furono tagliate via a colpi di ascia e squartate e trascinate con l’ausilio di funi e pezzo per pezzo, ciascuno in un luogo diverso della città; così il vecchio rimbambito (ndr. Serapide) è stato bruciato fino a farne cenere davanti agli occhi di quell’Alessandria che lo aveva adorato. Ultimo di tutti fu lasciato il busto che fu bruciato nell’anfiteatro». Allestendo questo smembramento pubblico, Teofilo non voleva solo dimostrare che il dio non era in grado di difendere più nemmeno il proprio simulacro, ma aveva anche un obiettivo politico specifico. I vescovi orientali del tempo avevano infatti interesse a mobilitare masse di monaci e fedeli fanatici contro i templi per dimostrare che i funzionari imperiali inviati dalla capitale non riuscivano più a mantenere il controllo dell’ordine pubblico ed eroderne così il potere a proprio vantaggio. Nel 391 Teofilo aveva fatto sapere a Costantinopoli di essere il vero padrone di Alessandria. Anche in questo caso la proclamata lotta all’idolatria ne nascondeva una per il potere di natura strettamente politica. Anche la distruzione dell’arte può essere instrumentum regni.