Il 20 gennaio 2017 Donald Trump, un miliardario che ha costruito il proprio successo nel mercato newyorkese degli immobili di lusso e che, dopo spericolate operazioni finanziarie che lo hanno portato sull’orlo della bancarotta, si è procurato la celebrità grazie alla partecipazione, dal 2004, a uno show televisivo nazionale (The Apprentice), è entrato ufficialmente in carica come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. La sua affermazione nelle primarie del Partito repubblicano (febbraio-luglio 2016) e la sua vittoria finale nella corsa alla Casa Bianca contro la candidata del Partito democratico Hillary Clinton (8 novembre 2016) hanno sorpreso buona parte degli analisti politici. Tenendo conto del recente contesto internazionale caratterizzato dalla Brexit (l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, esito di un referendum svoltosi il 23 giugno 2016) e dal crescente successo in Europa di partiti populisti ed etnonazionalisti, l’inaspettata ascesa di Trump alla guida degli Stati Uniti parrebbe inserirsi, a ben vedere, in uno scenario molto più ampio, che sta imponendo al dibattito pubblico alcuni importanti interrogativi sul futuro delle democrazie occidentali: stiamo assistendo a una loro crisi irreversibile? È in atto una profonda trasformazione della politica che i partiti tradizionali si rivelano inadeguati ad affrontare? Comprendere il caso statunitense, mettendolo a fuoco nella sua dimensione storica, può forse contribuire a rispondere a queste domande.
La campagna elettorale di Trump e le ragioni del suo successo
Fin dagli esordi in campagna elettorale, Donald Trump ha fatto leva sul suo essere un outsider della politica americana: ciò gli ha consentito di presentarsi come il più fiero avversario dell’establishment politico, tanto di quello democratico quanto di quello repubblicano. Nella stessa prospettiva, egli ha esibito il proprio disinteresse per il politically correct: non ha esitato, infatti, ad attaccare frontalmente non solo tutti i suoi avversari, ma anche i giornalisti che gli facevano domande scomode, non senza frequenti cadute di stile, talvolta pure a sfondo sessista. Infine, volgendo le spalle alla globalizzazione, ha costruito i propri programmi elettorali improntandoli ai valori della destra nazionalista: ha ripetutamente affermato, infatti, di voler difendere a tutti i costi gli interessi americani; ha adoperato in campagna elettorale lo slogan «Make America Great Again» («Rifacciamo grande l’America»); ha dichiarato di voler rilanciare l’economia nazionale ripristinando forme di protezionismo, soprattutto nei confronti dell’aggressività commerciale cinese; si è presentato, infine, come paladino degli americani, del loro lavoro così come della loro sicurezza, pronto a erigere un muro per fermare l’immigrazione dal Messico e a mettere in atto misure draconiane nei confronti degli islamici, per debellare il pericolo del terrorismo.
Sul versante opposto, Hillary Clinton ha impostato la propria campagna elettorale con l’obiettivo di trarre vantaggio dall’“estremismo” del suo avversario: la candidata democratica ha ritenuto, infatti, di poter contare, oltre che sul proprio elettorato, su quello moderato repubblicano; ha puntato, in altre parole, a costruire una maggioranza democratica bipartisan, stabile e duratura. Nel confronto elettorale, tuttavia, Trump è riuscito efficacemente a orientare contro la candidata democratica i sentimenti anti-establishment diffusi nell’elettorato americano, lasciando invece che la propria candidatura fosse percepita come una sfida a entrambi i partiti; da questo punto di vista, egli è stato paradossalmente favorito pure dalle divisioni interne al GOP (Grand Old Party, vale a dire il Partito repubblicano) e dall’ostilità manifestata nei suoi confronti da autorevoli esponenti repubblicani, tra cui Mitt Romney (il candidato alla presidenza nel 2008, sconfitto da Barack Obama), l’ex presidente George W. Bush e il fratello, ex governatore della Florida, Jeb Bush. Mentre alle spalle di Hillary Clinton gli elettori vedevano l’ombra della potente macchina del Partito democratico e dei poteri forti di Washington, Donald Trump si proponeva di guidare l’enorme folla “rivoltosa” del ceto medio bianco impoverito, vittima della recessione economica, per il quale, negli ultimi decenni, il “sogno americano” di lavoro e prosperità si è ribaltato (i giovani si sono scoperti più poveri rispetto ai loro genitori).
Populismo americano: i precedenti storici
Nella storia della democrazia statunitense non è la prima volta che, in una fase di crisi sociale particolarmente acuta, assumono grande rilevanza movimenti e leader politici che possono essere definiti, similmente a Trump, “populisti”. A fine Ottocento il populismo fu per certi versi “inventato” come formazione politica proprio negli Stati Uniti, con la nascita del People’s Party (Partito del Popolo), un movimento originato dalla protesta degli agricoltori del Sud e dell’Ovest contro l’establishment politico ed economico. I populisti americani del diciannovesimo secolo denunciavano la corruzione politica e quella dei giornali (a loro avviso addomesticati e resi inoffensivi per mezzo dei finanziamenti), così come la concentrazione di ricchezze e l’impoverimento dei contadini, e si proponevano l’obiettivo di «restituire il governo della Repubblica nelle mani della gente comune». La parabola politica del Partito del Popolo giunse al termine con la sconfitta, nel 1896, di William Jennings Bryan, candidato alla Casa Bianca da una coalizione tra populisti e Partito democratico.
La retorica e i temi del populismo tornarono in primo piano sulla scena politica statunitense in un’altra grave fase di crisi: quella della Grande Depressione, seguita al crollo della Borsa di Wall Street del 1929. Sorsero in quel contesto diversi movimenti di contestazione nei confronti dell’establishment, come quello di Francis E. Townsend, il quale intendeva salvare gli americani dalla miseria e rilanciare l’economia nazionale istituendo una pensione mensile di 200 dollari, con l’obbligo di spendere la somma entro tre giorni. Ancor più di successo furono gli slogan di Huey Long, il quale riteneva che fosse possibile dotare ogni famiglia americana di 5.000 dollari tassando i ricchi. I suoi discorsi erano caratterizzati da continui attacchi nei confronti di Wall Street e delle grandi compagnie; nel contempo, egli non esitava a cercare l’appoggio della principale organizzazione politica razzista americana, il Ku-Klux-Klan, dichiarandosi favorevole alla segregazione degli afroamericani. Long curò attentamente, inoltre, la propria immagine pubblica di “uomo del popolo”, invitando i suoi elettori a chiamarlo per nome, vestendosi in modo pittoresco, ostentando scarsa considerazione per le regole di comportamento in Senato. Nel ’35 fu assassinato e il suo movimento politico, Share Our Wealth (“Condividiamo la nostra ricchezza”), scomparve insieme a lui.
Circa trent’anni dopo un nuovo leader populista sfidò il tradizionale bipartitismo statunitense: il governatore dell’Alabama George Wallace, di fronte alla legislazione per i diritti civili, si fece paladino della segregazione razziale negli Stati del Sud. Il suo motto era: «Segregazione ora… segregazione domani… segregazione sempre». Nei suoi discorsi non mancavano, inoltre, attacchi rivolti contro l’establishment di Washington, i “burocrati”, le banche, i ricchi. Anch’egli, inoltre, volle apparire come uomo del popolo, vestendo con abiti poco costosi, pettinandosi i capelli all’indietro e dichiarando di amare la musica country e di mettere «il ketchup su tutto». Presentatosi candidato alle elezioni presidenziali del 1968 al di fuori dei due principali schieramenti politici, Wallace ottenne uno straordinario risultato: riuscì, infatti, a vincere in cinque Stati del Sud.
Ancor più sorprendente fu l’exploit compiuto dal miliardario e uomo d’affari texano Ross Perot nel 1992: con la sua organizzazione United We Stand America (poi trasformata in Reform Party), egli ottenne il 19 % dei consensi popolari (fu votato da circa venti milioni di elettori), vale a dire il miglior risultato di un terzo partito dopo quello di Theodore Roosevelt nel 1912 (presidente repubblicano dal 1901 al 1909, si era ripresentato per la Casa Bianca con il Progressive Party). Oltre a puntare sul suo enorme patrimonio per finanziare la campagna elettorale, Perot fece leva sull’immagine di imprenditore dotato di buon senso ed estraneo ai giochi della politica; al centro delle sue invettive anti-establishment vi erano i giornalisti, i politici, gli alti burocrati e le lobby economiche; il suo stile di comunicazione era incentrato sul mito di un rapporto diretto con il popolo, senza intermediazioni giornalistiche. Nelle file del suo Reform Party, significativamente, Donald Trump si sarebbe poi presentato nel 1999 quale candidato alla Casa Bianca.