Donne e islam. Che cosa è cambiato con le Primavere arabe
CULTURA STORICA
11 gennaio 2013: il sovrano dell’Arabia Saudita, re Abdullah, annuncia la nomina di 30 donne nell’assemblea consultiva (shura), su un totale di 150 uomini, facendo così compiere al suo paese un notevole balzo in avanti nella graduatoria internazionale per numero di donne presenti negli organi politici.
Anna Vanzan
La notizia, però, provoca considerazioni assai contrastanti: i più scettici dichiarano che si tratta di un ennesimo atto d’imperio da parte del sovrano, il quale avrebbe fatto meglio a indire elezioni cui far partecipare anche le donne e che, comunque, la shura non ha alcun potere; altri, al contrario, sottolineano positivamente l’iniziativa reale perché, in caso di libere elezioni, le donne non avrebbero mai la possibilità di conquistare un seggio, in quanto i sauditi sono troppo conservatori e misogini per eleggere una donna.
Le elette, comunque, dovranno rimanere fisicamente distanti dai colleghi, avranno entrate separate, si avalleranno di staff esclusivamente femminili e comunicheranno coi colleghi solo via audio e video. In altre parole, questo cambiamento mette in scena l’ennesima contraddizione della situazione femminile nei paesi del Golfo.
Poligamia e diritto di famiglia patriarcale
I principali stati del Golfo Persico (Kuwait, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Oman)1, hanno molti elementi in comune: sono - scarsamente - abitati da popolazioni di lingua araba e di religione islamica, sono dotati di immense risorse naturali ed energetiche, sono retti da monarchie illiberali e hanno una visione retriva della società, soprattutto del suo segmento femminile. Pregiudizi e ingiustizie contro le donne sono spesso perpetuati in nome dell’islam, la religione nata proprio nell’attuale Arabia Saudita, che ospita i luoghi più sacri per i musulmani, la Mecca e Medina. Tuttavia, la storia ci rivela come nei secoli scorsi la situazione femminile nell’area non fosse diversa da quella vissuta nel resto dell’ecumene islamico: le donne erano parte attiva delle loro società come mercanti, ostetriche, leader politiche, guerriere, insegnanti ed intellettuali, docenti o semplici pastore e artigiane. Il peggioramento della condizione femminile si è qui verificato nel XVIII secolo, conseguentemente alla nascita del wahhabismo 2, che ha introdotto un’attitudine estremamente “puritana” nei confronti delle relazioni di genere, acuendo la discriminazione nei confronti di quello femminile.
Nonostante la scoperta del petrolio, il miglioramento delle condizioni di vita materiali e la conseguente modernizzazione dei singoli paesi, la situazione femminile è peggiorata, soprattutto per quanto riguarda il diritto di famiglia e il trattamento in seno alla stessa. Poligamia e divorzio sono armi potenti nelle mani del patriarcato e scatenano una serie di abusi pretestuosi in nome della “vera” religione. La percentuale di unioni poligamiche nel Golfo è la più alta rispetto al mondo islamico: se Bahrein, Kuwait e Qatar registrano “solo” un 8% di matrimoni poligamici, la media sale all’11% in Oman, al 14% negli Emirati (UAE) e al 19% in Arabia Saudita. Questi dati sono relativi a unioni di un uomo con due mogli, ma vi sono, seppure in misura minore, nuclei familiari di un marito con tre fino a un massimo di quattro mogli, unioni celebrate con il consenso delle leggi locali in osservanza al passo coranico (Sura 4:3) 3 oggetto, peraltro, di secolari e accese contestazioni.
La contraddizione istruzione e lavoro
È altresì vero che in tutta la regione si sono compiuti enormi passi avanti nel livello di istruzione femminile, al punto che in molti atenei (creati localmente per superare l’avversione delle famiglie a inviare le figlie a studiare all’estero) la popolazione studentesca è perlopiù composta da ragazze. Ma fra le nuove generazioni fatica a farsi largo l’idea che uomini e donne debbano avere pari opportunità educative e lavorative: ne sono convinti solo il 73% delle donne e il 58% dei maschi intervistati durante un’inchiesta condotta nel 2008. Infatti, nonostante le autorità dei vari paesi commissionino a prestigiose agenzie internazionali patinati reportage per dimostrare il proprio avanzamento nelle politiche di genere, sbandierando le posizioni apicali ottenute da poche token women 4, spesso facenti parte proprio delle famiglie al governo, la realtà quotidiana è diversa. Per esempio, le autorità saudite vantano la presenza di migliaia di donne d’affari sul loro territorio, ma si tratta in realtà perlopiù di prestanome femminili per aziende in solide mani maschili: le saudite, infatti, rappresentano solo il 17% della forza lavoro del paese.
Al contempo, bisogna sottolineare la diversità di condizioni nei singoli stati: è indubbio, infatti, che nel Kuwait e in Bahrein sia presente una classe media urbana il cui stile di vita s’avvicina molto a quello delle analoghe classi occidentali, contemplando donne che lavorano come docenti, impiegate, personale d’assistenza sanitaria; o che negli Emirati si sia recentemente incoraggiata la presenza femminile nel mondo del lavoro emanando leggi a tutela alla maternità, allargando l’accessibilità al welfare alle donne in difficoltà ecc.
Tuttavia, i segnali rimangono ambigui, innanzitutto perché la maggior parte dei lavori disponibili alle donne (ovvero insegnante, infermiera, impiegata) riflette una concezione tradizionale dei ruoli di genere, confermando che l’alto livello di istruzione, per ora, non si concretizza in un vero processo di democratizzazione, ma riproduce perlopiù sistemi di valori patriarcali.
Inoltre, se da una parte giungono positivi segnali di politiche di genere, dall’altra la partecipazione femminile alla vita pubblica è di continuo minacciata. La presenza nel mondo del lavoro è garantita anche dalle immigrate che svolgono lavori domestici e di assistenza ai bambini, ma ultimamente la presenza di comunità non arabe e non musulmane ha raggiunto picchi tali da provocare allarmi sul pericolo della scomparsa della cultura e dei valori autoctoni e la conseguente, seppur lenta, politica di rimpiazzo di migranti con autoctoni. Ciò rappresenta un incentivo allo sviluppo demografico autoctono (dopo che il tasso demografico si è sensibilmente ridotto nelle ultime due decadi), ma anche un rischio per le donne che si ritroverebbero nella condizione di dover rinunciare al lavoro; pericolo che le locali hanno già fiutato e a cui stanno reagendo difendendo il diritto al lavoro delle baby sitter straniere e, quindi, indirettamente il proprio.
La situazione in Arabia saudita
Anche per questo aspetto l’Arabia Saudita si rivela il paese più conservatore dell’area: ha lanciato una campagna di “saudizzazione” che prevede, tra l’altro, la sostituzione dei venditori di biancheria intima o di articoli per signora - settore per lo più gestito da uomini provenienti dal Sud-est asiatico - con donne locali, un provvedimento inteso non tanto ad aprire posti di lavoro alle saudite quanto ad impedire loro di avere contatti con uomini estranei.
Nel frattempo, le donne hanno lanciato una campagna per ottenere il diritto a guidare (sono le uniche, nel mondo islamico, a non poterlo fare). Alcuni tentativi in proposito sono stati fatti in passato, ma sabato 26 ottobre 2013 decine di saudite si sono messe al volante della propria automobile, sfidando il veto monarchico, richiamando così l’attenzione su molte altre privazioni dei loro diritti e affermando che la campagna andrà avanti ad oltranza, organizzando cadenzate proteste di donne alla guida.
Le proteste nel Bahrein
Il paese del Golfo in cui si registrano le proteste più cruenti e violente tra le cosiddette Primavere arabe è senza dubbio il Bahrein, dove da quasi tre anni la dinastia regnante sunnita degli Al Khalifa sta vessando la società civile, a maggioranza sciita, che protesta per i propri diritti, con la scusa che in realtà i dissenzienti sarebbero sobillati dalla Repubblica Islamica dell’Iran che intenderebbe affermare la propria egemonia sul piccolo ma ricchissimo stato. Al di là di ogni considerazione sull’operato generale degli Al Khalifa, che hanno chiamato in supporto truppe saudite per reprimere la protesta civile, è utile considerare lo stato delle bahreinite e la loro azione in questo momento storico. La loro situazione, infatti, ben rappresenta le contraddizioni vissute dalle donne dell’area: da un lato, le bahreinite sono al centoundicesimo posto sui 134 paesi considerati dal Gender Gap del World Economic Forum 2012, che misura il divario di genere in termine di opportunità.
Tale sfavorevole classifica è determinata soprattutto dalle inique leggi personali, che consentono la poligamia, la richiesta di divorzio da parte del marito senza ricorrere al tribunale, l’impunibilità della violenza domestica e pene ridotte per chi compia un cosiddetto “delitto d’onore”. Queste leggi sono state confermate nel codice del 2009, e solo per le sunnite, mentre le sciite (causa soprattutto la resistenza da parte dei loro capi religiosi) non sono neppure contemplate nelle leggi dello stato (e nei relativi tribunali), pur essendo in ogni caso soggette al giudizio dei tribunali dove si amministra la legge religiosa (shari’a)5. La partecipazione politica è assai difficile per le bahreinite che hanno ottenuto il diritto di voto (e quello di presentarsi come candidate) solo nel 2002, anche se ora, con le quattro parlamentari elette, costituiscono il 10% del parlamento (composto, appunto, da 40 deputati).
Eppure, le rivolte che si susseguono dall’inizio del 2011 sono animate da moltissime donne il cui livello di istruzione è assai alto: infatti, le attiviste arrestate sono perlopiù medici, infermiere (accusate di prestare soccorso ai rivoltosi) e docenti di scuola di ogni ordine e grado, che vengono incarcerate, torturate, violentate. Alcune di loro sono divenute simbolo della protesta, come Fadhla al Mubarak, arrestata perché ascoltava nella sua macchina musica “rivoluzionaria”, condannata senza l’assistenza di un legale e liberata dopo un anno di carcere; o Zainab al Khawja, rispettivamente figlia e moglie di due leader dell’opposizione, condannata all’ergastolo per aver organizzato manifestazioni in cui chiedeva di conoscere il destino dei propri cari (e di altri prigionieri politici). Divenuta un’icona della rivoluzione, Zainab non lotta solo per la sua famiglia: dopo aver scontato una pena di tre mesi per aver protestato contro le autorità che non rilasciavano il corpo di un uomo ucciso dalla polizia in seguito a una protesta (febbraio 2013), l’attivista è rientrata in carcere a fine maggio per scontare altre tre mesi per offesa a pubblico ufficiale.
Yemen, il primato nel Gender Gap
Pur vantando la presenza di un’attivista antigovernativa del calibro di Tawakkul Karman, balzata agli onori della cronaca internazionale con il conferimento del Premio Nobel per la Pace nel 2011, il paese è in assoluto il peggiore tra quelli del Golfo per quanto riguarda la situazione delle sue cittadine, detenendo il poco lusinghiero primato nel Gender Gap del World Economic Forum. Anche qui è il diritto di famiglia (o meglio, la mancanza di un diritto equo) a determinare tale situazione: nello Yemen un uomo ha diritto a praticare la poligamia senza consenso delle altre mogli, può divorziare a piacimento solamente pronunciando tre volte la formula “io divorzio” (talaq) senza presenza di testimoni e senza la presenza della moglie, che così può ritrovarsi divorziata senza saperlo. Del resto, una donna può altresì trovarsi maritata a sua insaputa, perché la legge yemenita prevede che il contratto di matrimonio possa essere stipulato senza la presenza della sposa.
Le donne sono trattate come eterne minori: hanno bisogno di un tutore maschio per sposarsi, per recarsi in viaggio, perfino per stabilire il luogo di residenza. Il diritto islamico è applicato non solo in modo restrittivo, ma, addirittura, per difetto, basti pensare che la testimonianza delle donne non viene accettata nei casi in cui siano previste pene corporali, come nel caso di adulterio (che le riguarda direttamente). Nello Yemen si pratica la mutilazione dei genitali femminili 6, che non deriva dalla religione islamica, ma è arrivata secoli fa sulle coste yemenite con le migrazioni (e la tratta degli schiavi) dal Corno d’Africa: per quanto nel 2001 il governo abbia proibito al personale sanitario di praticarle, le mutilazioni non sono perseguite e continuano ad essere effettuate nelle zone extraurbane. Con una simile situazione sociale e giuridica - senza contare che le yemenite hanno il più basso tasso di scolarizzazione del Medio Oriente - non c’è da meravigliarsi se la loro partecipazione politica sia inesistente. In realtà, durante i lunghi anni della divisione del paese in Yemen del Nord e Yemen del Sud, le donne del sud, sotto il governo di un partito di ispirazione marxista, avevano acquisito importanti diritti (basti pensare che le uniche donne giudice nel paese provengono da questa zona), diritti che hanno perlopiù perduto con l’unificazione del 1990.
È nelle aree urbane, soprattutto nella capitale Sana’a che la situazione migliora, ed è da Sana’a che è partita la protesta della giornalista Tawakkul Karman, leader dell’ONG “Giornaliste senza catene”, fra i principali organizzatori della “Giornata dell’ira” svoltasi il 3 febbraio 2011 contro il dispotico regime di Saleh. Gli yemeniti, uomini e donne, hanno cominciato a scendere in piazza nel gennaio 2011, in appoggio alla Rivoluzione dei Gelsomini tunisina, chiedendo giustizia e democrazia anche per loro stessi. L’ex Presidente Saleh ha cercato di frantumare la rivolta ricorrendo al senso dell’“onore” degli uomini yemeniti, dichiarando che la partecipazione delle donne alle proteste in compagnia di uomini non legati a loro da legame di parentela, era haram, illecito (14 aprile 2011).
Inoltre, i parenti maschi delle dimostranti hanno ricevuto telefonate minatorie nelle quali venivano invitati a “controllare” le proprie donne. Per tutta risposta, il giorno dopo le yemenite si sono riversate in piazza, nonostante la polizia intervenisse con arresti arbitrari, a seguito dei quali una donna è stata uccisa. Le manifestanti hanno continuato a riempire le piazze, compiendo pure gesti clamorosi: prese a sassate 7 da gruppi filo-governativi allorché manifestavano pacificamente festeggiando il conferimento del premio Nobel alla compatriota Karman il 19 ottobre del 2011, dopo due settimane sono ridiscese in piazza e hanno bruciato il velo con cui la stragrande maggioranza delle yemenite si mostra in pubblico. Come ha affermato Tawakkul Karman nella conferenza stampa del conferimento del Nobel, «la rivoluzione in corso si batte per i valori di dignità e giustizia. I manifestanti non verranno a patti con nessun partito che fallisca nel riconoscere tali valori. Se qualcuno cerca di minacciare i nostri valori, torniamo in piazza» (7 novembre 2011). La dichiarazione di Kerman è suggestiva, ma nella realtà contraddittoria: il partito islamico Islah, nelle cui fila Tawakkul Karman milita, rifiuta di candidare le donne.
Anche nello Yemen, comunque, la Primavera araba ha portato dei risultati tangibili e, per la prima volta nella storia del paese, tre donne sono entrate nel nuovo gabinetto eletto nel 2011 a seguito delle dimissioni del Presidente Saleh. Il segnale maggiormente positivo è la quota del 30% garantita alle donne fra i membri del Dialogo Nazionale, avviato nel marzo scorso, una sorta di assemblea popolare ideata per discutere i problemi dello Yemen, compresi i diritti femminili. Non ci si può illudere che l’assemblea possa risolvere ogni problema, e tuttavia rappresenta un’importante novità il fatto che oltre 160 yemenite si trovino assieme agli uomini per dar voce alle proprie istanze, in particolare in materia di diritto di famiglia e di sicurezza nella società. Si tratta di un processo necessario sperando, come affermato del Ministro per i Diritti Umani, Hooriah Mashour, che sia altresì proficuo e irreversibile.