Racconto dalla Siria: Damasco, Homs, Palmira
CULTURA STORICA
Ho viaggiato in Siria per una settimana, dal 14 al 21 aprile, per conto del TG4. Andare in Siria con il visto ufficiale da giornalista è praticamente l’unico modo per visitare il paese in questo momento, a meno di correre rischi seri di essere rapiti o uccisi. Non è stato possibile accedere per “motivi di sicurezza” alla periferia di Damasco, che è sotto il controllo di gruppi di opposizione, né ad altre aree del paese che il regime siriano non ha interesse o motivo di mostrare alla stampa.
Gabriele Barbati
A Damasco, dal Libano
Tranne i morti, quasi mezzo milione in cinque anni, la tragedia in Siria è cambiata tante volte dal 2011 a oggi. I segni si vedono dappertutto, a cominciare dalla strada per raggiungere Damasco. L’aeroporto della capitale è stato presto ingoiato dalla guerra di posizione tra l’esercito governativo e i vari gruppi armati attivi nella periferia. Bisogna muoversi in macchina da Beirut, dal Libano dunque, scollinare un confine di montagna e filare per una quarantina di chilometri di boschetti e cantieri moderni. Fino al 2013 neanche questa via era così sicura. Rimane a ricordarlo il cartello che segna la deviazione verso Madaya e Zabadani, due cittadine un tempo sonnolente e dove ora miliziani di opposizione, e purtroppo diverse migliaia di civili, subiscono l’assedio di Hezbollah. Il movimento mussulmano sciita, che controlla ufficiosamente il Libano, ha segnato una svolta nel conflitto tre anni fa, intervenendo per mettere in sicurezza le principali vie di comunicazione che legano Damasco al Libano e alla costa mediterranea della Siria, dove il sostegno al presidente Bashar Al-Assad è maggiore tra la popolazione. Senza l’apporto infatti dei guerriglieri sciiti libanesi e di quelli arrivati dall’Iran - il protettore degli interessi del regime siriano, di Hezbollah e dei loro passaggi di armi - Assad non starebbe vincendo questa guerra.
Normalità e bandiere a Damasco
Lo dicono i sorrisi compiaciuti dei funzionari militari alla frontiera e l’aura di normalità e bandiere che regna entrando a Damasco. Le cose vanno molto meglio rispetto al passato. Al punto che ad aprile il regime ha potuto tenere anche delle elezioni parlamentari nelle aree sotto il proprio controllo, dove si stima vivano ancora otto milioni di siriani (su una popolazione totale di circa 24 prima della guerra). Dalle immagini della televisione di stato, che hanno mostrato una festa di votanti ai seggi, è sembrata più un’ auto-celebrazione del presidente che una competizione democratica. Nei caffè e nei ristoranti del centro, di nuovo affollati, si avverte la stessa sensazione di sollievo. Belle ragazze con e senza il velo e giovani ben vestiti ridono ai tavolini nel quartiere cristiano della città vecchia di Damasco, tra la porta di Tommaso e la grande moschea degli Omayyadi. A guardarli è difficile non pensare che furono dei loro coetanei nel marzo di cinque anni fa a scendere per le strade di Daraa, Damasco, Homs e Aleppo a chiedere la fine di cinquant’anni di arresti, controlli e dittatura in Siria. Erano le avvisaglie di quella “primavera araba” che avrebbe avuto esiti tanto diversi in Tunisia, Egitto e Yemen.
La guerra, epilogo della Primavera araba
La Siria ha subito l’epilogo peggiore. Era già accaduto negli anni sessanta ai primi accenni di opposizione al neonato regime siriano sotto la guida di Hafez Al-Assad, il padre dell’attuale presidente. Gli arresti e le uccisioni di allora riguardarono in particolare la città di Hama, dove l’esercito sarebbe stato mandato nuovamente nel 1982 a reprimere nel sangue, massacrando migliaia di persone, la rivolta dei Fratelli Mussulmani, un movimento religioso islamico con un grande seguito tra la popolazione e perciò mal visto dai militari al potere. Anche nel marzo del 2011 la protesta verso il governo prese corpo nelle piazze. Agli slogan e ai cartelloni che chiedevano democrazia nelle maggiori città del paese, il presidente Assad decise di rispondere con le cariche della polizia e poi dell’esercito. La repressione durò mesi, al prezzo di decine di migliaia di vittime e di arresti, e fu così violenta da creare una polarizzazione persino peggiore. I giovani sopravvissuti al pugno di ferro del regime in parte fuggirono all’estero, in parte confluirono in gruppi armati creati con l’aiuto di centinaia di soldati e ufficiali che nel frattempo, di fronte alla gravità degli ordini impartiti, avevano preso a disertare in massa. Si delineò così una vera e propria guerra civile tra l’esercito regolare siriano e un fronte eterogeneo di ribelli armati, costituito da giovani siriani e rifornito dai fuoriusciti in Turchia e in Giordania, battezzato Esercito Libero Siriano. Durò fino a tutto il 2012, con battaglie aspre e attacchi sempre più vicini alla stessa capitale da parte delle forze ribelli. Il regime utilizzò il grosso dell’esercito e dell’aviazione per contrastare i ribelli, arrivando ad arruolare anche una manovalanza di miliziani sciiti e alawiti (la minoranza di cui fa parte la famiglia Assad), che si resero protagonisti di terribili massacri ai danni di civili di fede musulmana sunnita.
È stato in questo stallo - politico, militare e infine settario - che l’arrivo di gruppi armati finanziati e istruiti dall’estero ha ulteriormente modificato la natura del conflitto siriano, soprattutto nel corso del 2013. Prima è stata la comparsa degli uomini dell’ISIS, inviati come una testa di ponte dall’Iraq dal sedicente califfo Abu Bakr Al Baghdadi per approfittare del caos e in grado nel tempo di espandersi a macchia d’olio nell’est del paese grazie a organizzazione e armamenti superiori. Poi è emerso il fronte Al-Nusra, una costola staccatasi dall’ISIS e subito affiliatasi ad Al-Qaeda, l’organizzazione terroristica oggi guidata dal successore di Osama Bin Laden, Ayman Al-Zawairi. A seguire, negli anni, sarebbero spuntate altre sigle di ispirazione radicale e ben provviste di fondi e mercenari dall’estero, su tutti Jaysh Al-Islam e Ahrar Al-Sham, che hanno finito per controllare ognuna il proprio pezzo di paese.
Di fatto, la Siria negli ultimi tre anni, è diventata il palcoscenico principale di una guerra per procura e tappa di uno scontro in corso da decenni per la leadership politica e religiosa del Medio oriente: da un lato, i paesi mussulmani sunniti, con in testa l’Arabia Saudita, e dall’altro quelli sciiti guidati dall’Iran, tra le cui fila si annovera anche la Siria degli Assad.
L’assedio alla periferia di Damasco
Basta muoversi di pochi chilometri dal centro di Damasco per avvertire la presenza delle formazioni islamiste. I soldati siriani ai posti di controllo, che punteggiano la capitale rallentando il traffico all’inverosimile, ti fermano sulla via verso il quartiere di Jobar. Sono solo cinque minuti dalla porta di Tommaso. Da qui piovevano i colpi dei mortai e dei cecchini che fino alla tregua di fine febbraio 2016 avevano svuotato persino la città vecchia. Sempre qui, e su gran parte della periferia a est di Damasco, nota come Ghouta orientale e controllata da gruppi di opposizione, l’esercito di Assad ha scaricato tutta la sua potenza militare, incluso nell’agosto 2013 il gas sarin che ha ucciso centinaia di persone. Ai bombardamenti poi si sono aggiunti gli assedi. Da est a ovest della capitale, in quartieri e intere municipalità che fino a pochi anni fa facevano tutt’uno con Damasco - come Douma,Yarmouk, Daraya, Moadamiyeh - si stima che le forze governative tengano in trappola almeno duecentomila civili, che vivono del poco che si riesce a coltivare o ottenere in qualche modo dalle organizzazioni internazionali o dai contrabbandieri. «Non è solo un problema di viveri. A migliaia di persone manca l’assistenza medica necessaria a curare le emergenze o anche le malattie precedenti. C’è bisogno di evacuarle», dice nel suo ufficio di Damasco, Pawel Krzysiek, portavoce del Comitato internazionale Croce Rossa in Siria.
Il difficile accesso dei convogli umanitari
La Croce Rossa e varie agenzie delle Nazioni Unite tentano quotidianamente di ottenere dalle parti in conflitto i permessi per inviare aiuti in diciotto aree in Siria che sono sotto assedio totale e in altre comunque ritenute “difficile da raggiungere”. Si ritiene che l’emergenza riguardi almeno una cinquantina di comunità e che al loro interno vivano quasi cinque milioni di persone. Finora le organizzazioni umanitarie ne hanno raggiunto solo una piccola parte e va considerato che, quando anche un convoglio di camion passa le linee del fronte, cibo, acqua e medicine e altri generi di prima necessità durano al più per un mese.
«È fondamentale che l’accesso dei convogli umanitari sia regolare e, auspicabilmente, che venga data libertà di movimento ai civili per uscire e soddisfare i propri bisogni» sottolinea a Damasco Kieran Dwyer, capo comunicazione dell’UNICEF, l’agenzia dell’ONU per l’infanzia.
«Alcune di queste aree non hanno visto distribuzioni di alimenti e medicine per due tre anni ormai - aggiunge - e un milione di bambini sotto i cinque anni in Siria non è stato vaccinato contro morbillo, meningite, pertosse, poliomielite. Si tratta di minacce mortali per i bambini».