La rivolta in Yemen
CULTURA STORICA
Lo Yemen è il paese più povero della penisola araba. A partire dalla fine del gennaio 2011, nel pieno di quello che fu definito da molti “effetto domino”, l’ondata di rivolte nel mondo arabo, scoppiate in Tunisia sul finire del 2010, raggiunse e sommerse anche lo Yemen.
Dossier Il Medio Oriente dopo le primavere arabe
Lo Yemen, il paese più povero della penisola araba
Al contrario dei suoi vicini, lo Yemen non può contare su risorse petrolifere imponenti e, in generale, non è particolarmente ricco di materie prime. La sua è un’agricoltura povera, praticata in zone aride e semi-aride, e la sua pastorizia è generalmente legata al nomadismo. La storia recente del paese è legata a doppio filo a questa realtà: lo Yemen è, nell’area, il paese a più alto rischio alimentare e il più esposto in caso di siccità. A questa economia fragile fa da tampone la vocazione commerciale dei porti yemeniti che, aggettati sull’oceano Indiano, rappresentano tuttora un importante punto di snodo commerciale, laddove la gran parte delle spezie e dei profumi che ci sono familiari (dal pepe alla cannella, al chiodo di garofano alla vaniglia all’anice al sandalo all’aloe, che veniva prodotta in loco) sono per secoli transitati e trasportati in Egitto attraverso il mar Rosso, per finire poi nel Mediterraneo e quindi in Europa.
La rivolta del 2011 e i suoi protagonisti
A partire dalla fine del gennaio 2011, nel pieno di quello che fu definito da molti “effetto domino”, l’ondata di rivolte nel mondo arabo, scoppiate in Tunisia sul finire del 2010, raggiunse e sommerse anche lo Yemen.
Mescolata nel calderone nel quale si mettevano, in quei giorni, tutte le espressioni di dissenso popolare provenienti da quell’area del mondo, la rivolta yemenita sembrava non avere sue peculiarità. Le immagini provenienti dal quel poverissimo paese della penisola araba, noto ai più per la regina di Saba, la diga di Marib, i commerci di spezie e le case torri di pasoliniana memoria - ossia per il suo strabiliante passato - risultavano schiacciate, nella prospettiva di un’Occidente lontanissimo, più dal punto di vista economico e culturale che non dal punto di vista geografico. Gli yemeniti sembravano assimilabili ai tunisini, agli egiziani, ai giordani.
Le piazze piene, gli accesi e improvvisati comizi, la repressione da parte delle forze dell’ordine apparivano figli di uno stesso malessere e, in parte, lo erano. Eppure la rivolta yemenita aveva le sue peculiarità: se “l’effetto domino” ha avuto un ruolo nell’accendere la miccia, di certo altri fattori, molto più determinanti e specifici, hanno contribuito a deciderne l’esito.
Tali fattori sono qui affrontati in cinque punti, che sintetizzano i seguenti temi: mosaico politico, culturale, religioso; terrorismo; posizione strategica; vita politica; povertà e società tribale.
Per comprendere le ragioni della rivolta contro il presidente Ali Abdullah Saleh e il suo sistema politico e amministrativo, bisogna tenere presenti tutti quegli elementi che facevano dello Yemen del 2011 un paese sull’orlo del baratro (vedi più avanti). Ad essi potremmo aggiungere l’appena evocato “effetto domino”, ossia il processo che ha portato tutti i paesi arabi a vivere, nei mesi successivi alla rivolta tunisina (dicembre 2010), momenti di partecipazione politica e contestazione più o meno marcati. Tutto ciò, tuttavia, non basterebbe a spiegare il grande seguito registratosi in Yemen fin dalle prime battute della rivolta: il tassello mancante e allo stesso tempo fondamentale, è il fattore generazionale. Furono infatti le nuove generazioni, e in particolare le nuove generazioni dell’élite istruita, a divenire da una parte il tallone di Achille del regime e dall’altro il cuore della rivolta.
Per descriverne il rilievo basta raccontare le vicende che hanno portato al primo “giorno della rabbia” yemenita (3 febbraio 2011). Nei primi giorni del 2011 il parlamento aveva votato un emendamento costituzionale che, se approvato definitivamente, avrebbe permesso a Saleh, in carica dal 1978, di presentarsi vita natural durante alle elezioni presidenziali. La protesta si concentrava proprio sull’inammissibilità di quell’emendamento, che simboleggiava l’inamovibilità del regime e, di conseguenza, la sua corruzione e incapacità di rispondere ai problemi più stringenti del paese: povertà e disoccupazione. Nel timore che le proteste in atto in Tunisia e in Egitto potessero “contagiare” lo Yemen, Saleh aveva proceduto a una serie di operazioni di “pulizia”, più di facciata che reali, come la “sospensione” del Ministro del petrolio, reo di non aver assicurato l’approvvigionamento di carburante presso le pompe di benzina; mosse che non impedirono l’organizzazione e la riuscita delle prime manifestazioni nel sud del paese a metà gennaio, eventi partecipati da migliaia di persone la cui parola d’ordine, che prefigurava uno scontro frontale, era “dimissioni”.
Ma l’evento che saldò le proteste del sud del paese, già ampiamente in fermento, con un nord che - con la sua capitale Sana`a - era fino a quel momento rimasto a guardare, fu l’arresto, il 23 gennaio, di Tawakkul Karman, giornalista e attivista ritenuta dalle forze di sicurezza la principale responsabile dell’organizzazione delle manifestazioni antiregime. Decine di migliaia di yemeniti si riversarono allora nelle strade del paese e in quella che è stata definita “la Tahrir yemenita”, ovvero piazza Taghyir,1 nel centro di Sana‘a. Il profilo politico e umano di questa leader, che nell’ottobre successivo verrà insignita (insieme a due donne liberiane) del premio Nobel per la pace, esemplifica con una certa efficacia il quadro complesso e in una certa misura contraddittorio nel quale il movimento anti-Saleh crebbe e in cui la rivolta yemenita si mosse.
Tawakkul Karman
Madre di tre bambini, Tawakkul Karman è originaria della provincia di Ta`izz, la terza città dello Yemen, e appartiene a una famiglia di politici e intellettuali. È figlia di ‘Abd al-Salam Khalid Karman, avvocato nominato a suo tempo dallo stesso presidente Saleh ministro della Giustizia, poi dimessosi dall’incarico, e sorella di Tariq - poeta - e di Safa’, giornalista della televisione satellitare qatarina al-Jazeera. Tawakkul, a sua volta giornalista, e conosciuta in Yemen per la sua attività nel campo dei diritti umani (è co-fondatrice nel 2005 dell’associazione “Giornaliste senza catene”), opererà una doppia contestazione: la prima contro il regime e la seconda contro la leadership della sua stessa organizzazione, Islaḥ. L’Islaḥ è il partito dell’islam politico - più o meno moderato - che, sebbene all’opposizione, ben rappresenta le dinamiche irrisolte dello Yemen, compresa quella del sottofondo “tribale” che, da un lato, si rivelerà di fondamentale importanza nel negoziare l’uscita di scena del presidente; ma, dall’altro, contribuirà alla repressione della parte migliore del movimento di protesta. Le dimissioni di Saleh, infatti, avvenute sotto le pressioni delle grandi potenze regionali e internazionali, saranno seguite dall’elezioni-farsa del suo vice, ‘Abd Rabbuh Mansur Hadi, candidato unico “concordato” dalle opposizioni.
Il mosaico politico, confessionale e tribale
Dal punto di vista politico, confessionale e culturale, lo Yemen rimane un paese diviso. Nata il 22 maggio 1990 dall’unione della Repubblica Popolare dello Yemen (Yemen del Sud con capitale ‘Adin) con la Repubblica Araba dello Yemen (Yemen del Nord, capitale Ṣana‘ā’) sotto la presidenza del leader di quest’ultimo paese, Ali Abdallah Saleh, la repubblica yemenita vive ancora oggi lo scontro interno al rinascente movimento indipendentista del sud, sorto dalle vestigia dell’opposizione armata all’unificazione, sconfitta militarmente nel 1994. Nel nord del paese, e più precisamente nei governatorati di Sa‘da e ‘Amran, regione un tempo egemone a maggioranza zaidita-sciita, è attivo il movimento armato degli al-Huti, un gruppo che prende il nome dal clan del suo fondatore, Husayn Badr al-Din, che lotta per l’autonomia dal governo centrale. Gli zaiditi sono una branca dello sciismo presente solo in Yemen e rappresentano il 45% circa della popolazione del paese, mentre il restante 55% è sunnita. A questi due conflitti - autonomisti e/o separatisti al sud e al nord - si aggiunge la frammentazione di una società che, soprattutto nelle zone rurali, ha un’organizzazione di tipo clanico e tribale sulle cui fratture e ricomposizioni si è spesso determinata la battaglia per la leadership politica.
Il terrorismo
Il potere centrale, in Yemen, ha spesso uno scarso controllo nelle vaste aree desertiche e semi-desertiche dell’interno del paese, in particolare modo in quelle meridionali e orientali. Ciò ha reso relativamente facile l’infiltrarsi di cellule del terrorismo islamico, le cui sempre più minacciose attività sono, soprattutto a partire dalla fine dello scorso decennio, ulteriore fonte di instabilità. Lo Yemen, proprio per le sue caratteristiche di paese impervio e poco controllato, a partire dalla metà degli anni 2000 è divenuto un rifugio sicuro per gli estremisti in fuga dalla vicina Arabia Saudita o da quelle aree, come l’Afghanistan, designate come obiettivo della “guerra al terrore”. Ma è solo nel 2009 che nasce ufficialmente al-Qa‘ida nella Penisola Araba (AQAP), dalla fusione della componente saudita con quella yemenita. Tale organizzazione, legata a al-Qa`ida centrale che ha tuttora sede nel Waziristan (al confine nord fra Pakistan e Afghanistan) rimane separata, sebbene contigua, a quella degli Ansar al-shari`a (cioè i Sostenitori della al-shari`a, la Legge islamica), emersi nel 2011 durante i mesi della rivolta. Questi ultimi, dalla più marcata matrice locale, si caratterizzano per una maggiore attività di reclutamento e per una strategia di attacco incentrata sul combattimento più che sull’attentato.
La posizione strategica
Sebbene non sia un paese ricco, lo Yemen ha una non indifferente importanza nello scacchiere internazionale grazie alla sua posizione strategica. Con il porto di ‘Adin controlla lo stretto di Bab al-Mandib, la “porta” d’entrata del mar Rosso, al cui estremo settentrionale si trova il canale di Suez che dà accesso al mar Mediterraneo. Gli Stati Uniti hanno una loro base nell’isola yemenita di Socotra, che si trova proprio in prossimità dello stretto. Non meno importanti, ma questa volta dal punto di vista degli equilibri interni alla Penisola araba, sono i 1.800 chilometri di confine con il regno dell’Arabia Saudita. Oggetto di contesa fra i due paesi fino al trattato del 2000, le aree frontaliere sono tuttora estremamente vulnerabili e porose, registrando diversi episodi di sconfinamento da parte di contrabbandieri, di uomini in armi di differenti fazioni e di terroristi nell’una e nell’altra direzione.
La vita politica
Negli anni trascorsi fra l’unificazione e la rivolta, lo Yemen ha vissuto una fase di stagnazione politica cui ha fatto da contrappunto l’emersione, sempre più prepotente, dei diversi elementi di instabilità. Il regime di Saleh non ha promosso riforme in campo politico ed economico, limitandosi a gestire gli aiuti economici da cui lo Yemen dipende, in un sistema sempre più corrotto. In questo contesto, il nord ha visto una forte ripresa dello scontro armato contro gli al-Huti (con un rilevante contraccolpo in termini di emergenza umanitaria); mentre al sud il movimento indipendentista si è riorganizzato e consolidato. Parallelamente, sul fronte della lotta al terrorismo, Saleh ha controllato - facendosi garante di una gestione interna - i consistenti aiuti militari, agitando lo spauracchio della reazione che un intervento esterno avrebbe provocato. Una politica che assicurava solo una stabilità di facciata: uno studio di Chatam House del 20102 sottolinea che i “paesi donatori” concentrano i loro aiuti quasi unicamente nel settore della sicurezza, dimenticando la critica situazione economica del paese e dunque generando un malcontento che, a sua volta, spinge la società yemenita verso una maggiore radicalizzazione. Una spirale alla quale ha provato a dare una soluzione l’iniziativa umanitaria internazionale nota con il nome di “Friends of Yemen” la quale, tuttavia, ha subito forti ritardi e, soprattutto, è riuscita solo molto parzialmente a raggiungere le popolazioni a causa del “filtro” governativo.
Povertà e società tribale
Agli albori della stagione di rivolte era il dato economico generale a rappresentare il maggior elemento di preoccupazione. Una ricerca dell’ottobre 20103 fotografa un paese in preda ad una crisi accentuata dalla sempre maggiore scarsità di acqua e dalla conseguente diminuzione di aree coltivabili che, sempre più, divengono oggetto di contesa armata fra singoli, famiglie, clan, villaggi. Si aggiunga la violenza diffusa, dovuta anche all’abitudine da parte degli uomini delle tribù di portare armi, abitudine che, secondo il rapporto, produce perdite umane in numero decisamente maggiore rispetto a quanto si registrava nei pur sanguinosi conflitti fra l’autorità centrale e oppositori di varia natura. L’analisi fa anche intuire quale sia il peso della società tradizionale, di impostazione tribale, e di quanto questo elemento non venga presso nella giusta considerazione. Sarà questo dato, insieme a quello economico, a rimanere sostanzialmente immutato a due anni dalla “rivolta”.
Note
1.Tahrir significa “liberazione”, taghyir significa “cambiamento”.
2.Sally Healy e Ginny Hill, “Yemen and Somalia: Terrorism, Shadow Networks and the Limitations of State-building” (Chatam House, Briefing paper, ottobre 2010).
3.“Under pressure: Social violence over land and water in Yemen” in Small Arms Survey Issue Brief, n. 2, October 2010.