La ricostruzione della genesi dello Stato Islamico
Dietro i proclami e le sfide di ISIS però, c’è ben poco di attraente o di romantico. La genesi dello Stato Islamico è stata ricostruita di recente da un settimanale tedesco, che ha avuto accesso a una mole di documenti appartenente a un ex funzionario del regime di Saddam Hussein, molto potente fino all’intervento militare americano del 2003. Haji Bakr, un ufficiale dei servizi segreti iracheni, aveva espresso in modo dettagliato, attraverso mappe, liste di nominativi e priorità, la strategia per creare dal nulla una nuova struttura statale. La conquista del potere sarebbe passata dalla progressiva infiltrazione in villaggi e città di membri dell’organizzazione: prima avrebbero aperto innocui centri religiosi missionari e nel tempo avrebbero monitorato i residenti, intimidito politici e i leader militari locali, operato sequestri e uccisioni mirate e, in alcuni casi, si sarebbero persino sposati con ragazze delle famiglie più influenti. Un piano parzialmente ispirato alla condotta dei regimi polizieschi del Medio Oriente, fondati su una sorveglianza ossessiva. Il caos della Siria offriva il terreno per fare pratica e Haji Bakr, passato in clandestinità dopo lo scioglimento degli apparati militari iracheni da parte delle forze USA, si trasferì nei dintorni di Aleppo nel 2013.
La separazione da Al-Qaeda e il Califfato
Oltre alla strategia e a un territorio fertile per attuarla, tuttavia, serviva una forza operativa. L’occasione si era creata dieci anni prima, sempre a cavallo della seconda guerra del Golfo, con la creazione del ramo iracheno di Al-Qaeda l’organizzazione terroristica fondata da Osama Bin Laden e responsabile degli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Gli attacchi compiuti dal nuovo gruppo e l’adesione di soldati e ufficiali del disciolto esercito iracheno ne favorirono la crescita fino alla morte del suo leader, Abu Musab Al-Zarqawi, in un bombardamento americano nel 2006. Il gruppo si tramutava di fatto in ISI, Stato Islamico in Iraq, in attesa di un nuovo leader che quattro anno dopo si materializzò in un modesto predicatore già detenuto brevemente dagli americani, Awad Ibrahim Al-Badri Al-Sammarrai, conosciuto anche come Al-Baghdadi. Sotto la sua guida, ISI riprese gli attacchi alle forze internazionali in Iraq e inviò in Siria una testa di ponte con cui sarebbe riuscita a espandersi in buona parte dell’est del paese. Si trattava del Fronte Al-Nusra, affiliato come ISI ad Al-Qaeda. La successiva decisione di Al-Baghdadi nell’aprile 2013 di unire le milizie irachene e siriane nel nuovo ISIS segnò la separazione da Al-Qaeda e da Al-Nusra. Consolidate le posizioni in Siria intorno a una capitale di fatto, Raqqa, e aiutata da clan sunniti ostili al nuovo governo sciita insediato dagli Stati Uniti a Baghdad, ISIS ha proseguito la marcia verso l’Iraq, conquistando Falluja, nel centro, Mosul, nel nord, e infine nella primavera di quest’anno Ramadi, un centinaio di km a ovest della capitale.
La conquista di territori ha alternato rapide avanzate a pause strategiche, per consolidare le posizioni e procedere a ciò che Al Qaeda aveva sempre escluso (dando la priorità alla guerra contro l’Occidente): ripristinare il Califfato, ossia uno stato governato secondo la legge islamica da un capo con mandato divino, il Califfo appunto (in arabo, Khalifa), a cui la comunità universale dei musulmani (la umma) deve obbedienza. Per ricoprire questa carica, istituita storicamente per la successione a Maometto (Muhammad) e ricoperta agli inizi dai suoi parenti e discepoli più stretti, Al-Baghdadi ha scelto di farsi chiamare Califfo Ibrahim o Califfo Abu Bakr, in onore probabilmente di colui che fu il primo successore del Profeta.
L’organizzazione dello Stato Islamico
Lo Stato Islamico conta oggi su una burocrazia di funzionari, corti islamiche, una sorta di polizia buoncostume, scuole coraniche, e su una propria moneta, coniata di recente. Sotto il Califfo, operano quattro consigli: religioso, consultivo, militare e di sicurezza. La struttura viene replicata a livello provinciale e distrettuale. A garantire ciò, rimane una consistente milizia. Al servizio del Califfo ci sarebbero, secondo stime di intelligence americana, circa 20-30 mila combattenti originari di un centinaio di paesi e ben armati. Parte di armi e mezzi è stata sottratta all’esercito iracheno in ritirata e prima a quello siriano, il resto è stato comprato sul mercato. I fondi del resto non mancano. Alle donazioni di facoltosi simpatizzanti nelle monarchie del Golfo, al principio, è seguito un vero e proprio sistema criminale di ricavi. L’estrazione di petrolio dei pozzi presenti nel territorio conquistato e la vendita attraverso contrabbandieri al di sotto del prezzo di mercato frutta, stando a stime del governo USA, circa 100 milioni di dollari all’anno. Si aggiungono le decine di milioni ricavate dai riscatti per i sequestri di cittadini internazionali, o taglieggiati a commercianti locali per la protezione loro garantita, e le entrate del traffico di manufatti archeologici.
La ramificazione dell’ISIS
Il potere economico e mediatico aumenta ovviamente la capacità di ramificazione dell’ISIS. Il vessillo nero del Califfo è comparso progressivamente in paesi lontani dal Levante: Libia, Egitto, Sudan, Nigeria. Solo in minima parte, è vero che i mercenari di tali paesi impegnati in Iraq e Siria hanno fatto ritorno a casa. Per il resto, si tratta di alleanze dichiarate da gruppi terroristici già attivi nei rispettivi paesi e affiliatisi a ISIS, come fatto in precedenza con Al Qaeda. È accaduto in Libia, dove sono operative varie milizie islamiche alleate, specie nelle zone costiere di Derna e Sirte. Analogamente Ansar Beit Al-Maqdis, un gruppo attivo in Egitto e responsabile di attentati a forze di sicurezza o a turisti e di qualche razzo lanciato contro Israele, ha stabilito formalmente la Wilayat al-Sina, la provincia di ISIS nella penisola del Sinai. Lo stesso Boko Haram, responsabile di gravissime stragi in Nigeria e nei paesi confinanti, ha giurato fedeltà al Califfo dichiarandosi Provincia dell’Africa Occidentale. Infiltrazioni o adesioni si sono registrate anche in altri paesi, teatro di attentati a moschee o altri obiettivi ad alta visibilità: Arabia Saudita, Tunisia (da cui proviene una fetta consistente dei miliziani del Califfo), Yemen.
Come fermare ISIS?
La disfatta dell’esercito iracheno ha certamente complicato gli sforzi. Gli Stati Uniti hanno assemblato un anno fa una coalizione internazionale per bombardamenti aerei mirati a cui hanno aderito con impegni e tornaconti variabili alleati occidentali e dell’area, tra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi, Giordania e Qatar. A mancare sono stati tuttavia i soldati sul terreno, dal momento che i sanguinosi precedenti hanno impedito politicamente al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di inviare più di pochi consiglieri militari. In Iraq, il governo di Baghdad ha mobilitato dunque contro ISIS diverse milizie sciite, formatesi nei decenni di dittatura sunnita di Saddam. Se ha funzionato nell’immediato per riconquistare la città di Tikrit e proteggere la capitale, la mossa ha rinvigorito uno scontro che ha già mostrato una violenza inaudita nel decennio di occupazione americana: quello tra maggioranza musulmana sciita e minoranza sunnita, e tra i rispettivi bracci armati. Non si è potuto contare sull’aiuto dell’esercito regolare neanche in Siria, dove il presidente Bashar Al-Assad è piuttosto preoccupato di difendere la propria sopravvivenza. D’altra parte un invito a collaborare non è mai arrivato al presidente siriano, che non è stato riabilitato dalla condizione di nemico numero uno, assegnatagli all’inizio della rivoluzione siriana ben prima della comparsa sulla scena dei jihadisti e di ISIS.
A disposizione sono rimasti solo i combattenti curdi, impegnati sia in Iraq che in Siria a difendere le proprie zone di influenza, nel sogno di ottenere un giorno un proprio stato indipendente e inclusivo delle comunità sparse tra Iraq, Iran, Siria e Turchia. La collaborazione con gli Stati Uniti è servita a contenere ISIS nella zona di Mosul e ad accogliere i profughi iracheni nella regione autonoma del Kurdistan. Analogamente, nel nord e nel nord est della Siria la copertura aerea americana ha permesso ai miliziani curdi delle Unità di Protezione Popolare (YPG) di conquistare una fascia di territorio continua fino al confine iracheno e a respingere per due volte le avanzate di ISIS sulla città di Kobane, diventata una simbolo della resistenza. Il supporto aereo unito alla voglia di riscatto dei curdi, non scevra da violazioni dei diritti della popolazione araba nelle zone sotto il loro controllo, è sembrato l’unica arma vincente contro ISIS, almeno fino agli ultimi sviluppi. Ad agosto, gli Stati Uniti hanno ottenuto che le proprie missioni aeree partissero anziché dalle lontane basi del Golfo da quelle in Turchia, paese membro della NATO e confinante con i teatri delle operazioni. In cambio, il governo di Ankara ha chiesto la creazione informale di una zona cuscinetto ai propri confini con Iraq e Siria. L’obiettivo dichiarato è di tenere lontani i terroristi dal proprio territorio, che in verità è stato finora il retrovia logistico di combattenti e traffici di ISIS.
La realtà è che la Turchia ha voluto prevenire che i curdi siriani creassero una continuità territoriale con i territori curdi iracheni, e potessero a quel punto puntare all’ultimo pezzo dello stato agognato: i circa 20 milioni di curdi che vivono nel sud della Turchia. Non a caso, i raid aerei di Ankara hanno colpito tanto ISIS quanto il PKK (Partito dei Lavoratori Curdi, l’organizzazione rivoluzionaria dei curdi turchi con basi in Iraq) e le YPG. In risposta alla violazione degli accordi di pace firmati di recente, i curdi hanno ripreso gli attacchi terroristici contro poliziotti e militari turchi.
La guerra alimenta l’immigrazione in Europa
La situazione appare ora più complicata, riaprendo la questione delle forze in campo contro il Califfo e, indirettamente, la partita per il potere in Siria, dove Assad dovrebbe avvantaggiarsi dell’offensiva turca contro i curdi e ISIS. Di sicuro c’è che l’instabilità del Medioriente continua ad alimentare una delle questioni più spinose per l’Italia e per l’Europa: l’immigrazione clandestina. Se il caos in Libia ha aperto in massa alle rotte e alla stragi estive dei barconi, la guerra in Siria, giunta al quinto anno, e le sue propaggini in Iraq spingono sempre più disperati ad avventurose traversate lungo i Balcani, per trovare rifugio nel cuore dell’Europa.