Lo Stato Islamico: genesi, organizzazione, strategie

Stato islamico

CULTURA STORICA

Chiese e templi distrutti, donne schiavizzate, decapitazioni di infedeli e nemici: ISIS è entrato nelle nostre vite come un fenomeno violento e improvviso due anni fa. A ben guardare, tuttavia, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS, ribattezzatosi semplicemente IS, Stato Islamico) è il risultato di una storia lunga e di una strategia pianificata, che include appunto la sottomissione di quanto (simboli, persone) non sia musulmano o in linea con gli obiettivi del gruppo..

Gabriele Barbati

Il contrabbando di reperti archeologici

L’archeologia è uno degli esempi principali della strategia di ISIS. I miliziani hanno usato esplosivi e ruspe contro i patrimoni artistici dell’Iraq, a Hatra, Mosul e Nimrud, prima. Poi, con la conquista di Tadmor nel centro della Siria, hanno messo le mani sulle rovine di una delle più fiorenti città dell’antico Oriente all’incrocio tra Persia e mondo greco-romano, Palmyra. I video della decapitazione di statue o della demolizione di templi – altamente curati nelle riprese e nel montaggio – sono serviti a ISIS a rafforzare il proprio messaggio: “siamo i più forti e agiamo in nome di una ideologia superiore”. Al di là della sapiente propaganda, la maggior parte delle collezioni rubate in musei e parchi archeologici è stata in realtà risparmiata e avviata al mercato nero del collezionismo. Si stima che, dopo il contrabbando di petrolio, quello di reperti costituisca la seconda maggiore fonte di ricavi per ISIS, nell’ordine di decine di milioni di dollari annui.

La barbarie contro le donne

Abbiamo visto come la barbarie dei miliziani contro l’arte abbia avuto ampio risalto sui media, quasi al pari delle notizie e immagini di ostaggi e prigionieri giustiziati. Un altro aspetto terribile della stessa barbarie, che ha sconvolto il mondo, è stato quello degli abusi contro le donne. Secondo organizzazioni non governative, i miliziani hanno rapito a scopo sessuale (e spesso ucciso) oltre 5 mila donne Yazidi (o Ezidi), una minoranza accusata di credenze politeistiche e stanziata soprattutto nel nord dell’Iraq, di cui tremila, secondo l’ONU, sono ancora in schiavitù. In questo caso, più che la propaganda, è stata l’interpretazione estrema dell’Islam sunnita sposata dall’ISIS ad avere un ruolo preponderante.

L’avanzata dei miliziani in quel territorio ha avuto lo scopo preciso di sequestrare ragazze, anche di soli 12 anni, da offrire come mogli o schiave sessuali ai combattenti. Inchieste giornalistiche, basate sulle testimonianze di ragazze che sono riuscite a fuggire o per cui è stato pagato un riscatto dalle famiglie o da benefattori internazionali, hanno rivelato un’organizzazione meticolosa che prevede autobus per il trasporto delle donne in veri e propri centri di smistamento, dove avviene la loro selezione e compravendita, stipulata con dei veri e propri contratti. I miliziani di ISIS considerano infatti lo stupro ai danni di donne miscredenti come un diritto legittimo, al punto da essere sancito da preghiere prima e dopo le violenze sessuali.
Tale trattamento è stato in parte risparmiato a donne di religioni cui il Corano attribuisce uno status protetto, come cristianesimo ed ebraismo. Secondo il libro sacro musulmano, infatti, queste sono religioni monoteistiche precedenti all’Islam. I loro fedeli possono dunque convertirsi o sottomettersi pagando una tassa. Sembra la spiegazione più plausibile, sebbene ciò non abbia trattenuto l’ISIS dal massacrare centinaia di cristiani assiri tra Siria e Iraq e copti in Egitto e Libia, e dal fare spesso appello a una guerra santa contro i “nemici cristiani”.

Spaventare i nemici e attrarre nuove forze

Le gesta e l’opera di comunicazione di ISIS sono servite per raggiungere un doppio scopo: spaventare i nemici e attrarre nuove forze. Le vittorie sul terreno e l’ideale di un presunto ritorno all’Islam delle origini hanno prodotto un mix affascinante per migliaia di uomini e donne di paesi musulmani e centinaia di altri provenienti da Europa, Stati Uniti e Australia. Contraddizioni sociali, difficoltà economiche e in qualche caso una semplice moda hanno contribuito a spingere aspiranti combattenti e future spose a riversarsi nell’inferno siro-iracheno, passando dalla Turchia.

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La ricostruzione della genesi dello Stato Islamico

Dietro i proclami e le sfide di ISIS però, c’è ben poco di attraente o di romantico. La genesi dello Stato Islamico è stata ricostruita di recente da un settimanale tedesco, che ha avuto accesso a una mole di documenti appartenente a un ex funzionario del regime di Saddam Hussein, molto potente fino all’intervento militare americano del 2003. Haji Bakr, un ufficiale dei servizi segreti iracheni, aveva espresso in modo dettagliato, attraverso mappe, liste di nominativi e priorità, la strategia per creare dal nulla una nuova struttura statale. La conquista del potere sarebbe passata dalla progressiva infiltrazione in villaggi e città di membri dell’organizzazione: prima avrebbero aperto innocui centri religiosi missionari e nel tempo avrebbero monitorato i residenti, intimidito politici e i leader militari locali, operato sequestri e uccisioni mirate e, in alcuni casi, si sarebbero persino sposati con ragazze delle famiglie più influenti. Un piano parzialmente ispirato alla condotta dei regimi polizieschi del Medio Oriente, fondati su una sorveglianza ossessiva. Il caos della Siria offriva il terreno per fare pratica e Haji Bakr, passato in clandestinità dopo lo scioglimento degli apparati militari iracheni da parte delle forze USA, si trasferì nei dintorni di Aleppo nel 2013.

La separazione da Al-Qaeda e il Califfato

Oltre alla strategia e a un territorio fertile per attuarla, tuttavia, serviva una forza operativa. L’occasione si era creata dieci anni prima, sempre a cavallo della seconda guerra del Golfo, con la creazione del ramo iracheno di Al-Qaeda l’organizzazione terroristica fondata da Osama Bin Laden e responsabile degli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Gli attacchi compiuti dal nuovo gruppo e l’adesione di soldati e ufficiali del disciolto esercito iracheno ne favorirono la crescita fino alla morte del suo leader, Abu Musab Al-Zarqawi, in un bombardamento americano nel 2006. Il gruppo si tramutava di fatto in ISI, Stato Islamico in Iraq, in attesa di un nuovo leader che quattro anno dopo si materializzò in un modesto predicatore già detenuto brevemente dagli americani, Awad Ibrahim Al-Badri Al-Sammarrai, conosciuto anche come Al-Baghdadi. Sotto la sua guida, ISI riprese gli attacchi alle forze internazionali in Iraq e inviò in Siria una testa di ponte con cui sarebbe riuscita a espandersi in buona parte dell’est del paese. Si trattava del Fronte Al-Nusra, affiliato come ISI ad Al-Qaeda. La successiva decisione di Al-Baghdadi nell’aprile 2013 di unire le milizie irachene e siriane nel nuovo ISIS segnò la separazione da Al-Qaeda e da Al-Nusra. Consolidate le posizioni in Siria intorno a una capitale di fatto, Raqqa, e aiutata da clan sunniti ostili al nuovo governo sciita insediato dagli Stati Uniti a Baghdad, ISIS ha proseguito la marcia verso l’Iraq, conquistando Falluja, nel centro, Mosul, nel nord, e infine nella primavera di quest’anno Ramadi, un centinaio di km a ovest della capitale.
La conquista di territori ha alternato rapide avanzate a pause strategiche, per consolidare le posizioni e procedere a ciò che Al Qaeda aveva sempre escluso (dando la priorità alla guerra contro l’Occidente): ripristinare il Califfato, ossia uno stato governato secondo la legge islamica da un capo con mandato divino, il Califfo appunto (in arabo, Khalifa), a cui la comunità universale dei musulmani (la umma) deve obbedienza. Per ricoprire questa carica, istituita storicamente per la successione a Maometto (Muhammad) e ricoperta agli inizi dai suoi parenti e discepoli più stretti, Al-Baghdadi ha scelto di farsi chiamare Califfo Ibrahim o Califfo Abu Bakr, in onore probabilmente di colui che fu il primo successore del Profeta.

L’organizzazione dello Stato Islamico

Lo Stato Islamico conta oggi su una burocrazia di funzionari, corti islamiche, una sorta di polizia buoncostume, scuole coraniche, e su una propria moneta, coniata di recente. Sotto il Califfo, operano quattro consigli: religioso, consultivo, militare e di sicurezza. La struttura viene replicata a livello provinciale e distrettuale. A garantire ciò, rimane una consistente milizia. Al servizio del Califfo ci sarebbero, secondo stime di intelligence americana, circa 20-30 mila combattenti originari di un centinaio di paesi e ben armati. Parte di armi e mezzi è stata sottratta all’esercito iracheno in ritirata e prima a quello siriano, il resto è stato comprato sul mercato. I fondi del resto non mancano. Alle donazioni di facoltosi simpatizzanti nelle monarchie del Golfo, al principio, è seguito un vero e proprio sistema criminale di ricavi. L’estrazione di petrolio dei pozzi presenti nel territorio conquistato e la vendita attraverso contrabbandieri al di sotto del prezzo di mercato frutta, stando a stime del governo USA, circa 100 milioni di dollari all’anno. Si aggiungono le decine di milioni ricavate dai riscatti per i sequestri di cittadini internazionali, o taglieggiati a commercianti locali per la protezione loro garantita, e le entrate del traffico di manufatti archeologici.

La ramificazione dell’ISIS

Il potere economico e mediatico aumenta ovviamente la capacità di ramificazione dell’ISIS. Il vessillo nero del Califfo è comparso progressivamente in paesi lontani dal Levante: Libia, Egitto, Sudan, Nigeria. Solo in minima parte, è vero che i mercenari di tali paesi impegnati in Iraq e Siria hanno fatto ritorno a casa. Per il resto, si tratta di alleanze dichiarate da gruppi terroristici già attivi nei rispettivi paesi e affiliatisi a ISIS, come fatto in precedenza con Al Qaeda. È accaduto in Libia, dove sono operative varie milizie islamiche alleate, specie nelle zone costiere di Derna e Sirte. Analogamente Ansar Beit Al-Maqdis, un gruppo attivo in Egitto e responsabile di attentati a forze di sicurezza o a turisti e di qualche razzo lanciato contro Israele, ha stabilito formalmente la Wilayat al-Sina, la provincia di ISIS nella penisola del Sinai. Lo stesso Boko Haram, responsabile di gravissime stragi in Nigeria e nei paesi confinanti, ha giurato fedeltà al Califfo dichiarandosi Provincia dell’Africa Occidentale. Infiltrazioni o adesioni si sono registrate anche in altri paesi, teatro di attentati a moschee o altri obiettivi ad alta visibilità: Arabia Saudita, Tunisia (da cui proviene una fetta consistente dei miliziani del Califfo), Yemen.

Come fermare ISIS?

La disfatta dell’esercito iracheno ha certamente complicato gli sforzi. Gli Stati Uniti hanno assemblato un anno fa una coalizione internazionale per bombardamenti aerei mirati a cui hanno aderito con impegni e tornaconti variabili alleati occidentali e dell’area, tra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi, Giordania e Qatar. A mancare sono stati tuttavia i soldati sul terreno, dal momento che i sanguinosi precedenti hanno impedito politicamente al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di inviare più di pochi consiglieri militari. In Iraq, il governo di Baghdad ha mobilitato dunque contro ISIS diverse milizie sciite, formatesi nei decenni di dittatura sunnita di Saddam. Se ha funzionato nell’immediato per riconquistare la città di Tikrit e proteggere la capitale, la mossa ha rinvigorito uno scontro che ha già mostrato una violenza inaudita nel decennio di occupazione americana: quello tra maggioranza musulmana sciita e minoranza sunnita, e tra i rispettivi bracci armati. Non si è potuto contare sull’aiuto dell’esercito regolare neanche in Siria, dove il presidente Bashar Al-Assad è piuttosto preoccupato di difendere la propria sopravvivenza. D’altra parte un invito a collaborare non è mai arrivato al presidente siriano, che non è stato riabilitato dalla condizione di nemico numero uno, assegnatagli all’inizio della rivoluzione siriana ben prima della comparsa sulla scena dei jihadisti e di ISIS.

A disposizione sono rimasti solo i combattenti curdi, impegnati sia in Iraq che in Siria a difendere le proprie zone di influenza, nel sogno di ottenere un giorno un proprio stato indipendente e inclusivo delle comunità sparse tra Iraq, Iran, Siria e Turchia. La collaborazione con gli Stati Uniti è servita a contenere ISIS nella zona di Mosul e ad accogliere i profughi iracheni nella regione autonoma del Kurdistan. Analogamente, nel nord e nel nord est della Siria la copertura aerea americana ha permesso ai miliziani curdi delle Unità di Protezione Popolare (YPG) di conquistare una fascia di territorio continua fino al confine iracheno e a respingere per due volte le avanzate di ISIS sulla città di Kobane, diventata una simbolo della resistenza. Il supporto aereo unito alla voglia di riscatto dei curdi, non scevra da violazioni dei diritti della popolazione araba nelle zone sotto il loro controllo, è sembrato l’unica arma vincente contro ISIS, almeno fino agli ultimi sviluppi. Ad agosto, gli Stati Uniti hanno ottenuto che le proprie missioni aeree partissero anziché dalle lontane basi del Golfo da quelle in Turchia, paese membro della NATO e confinante con i teatri delle operazioni. In cambio, il governo di Ankara ha chiesto la creazione informale di una zona cuscinetto ai propri confini con Iraq e Siria. L’obiettivo dichiarato è di tenere lontani i terroristi dal proprio territorio, che in verità è stato finora il retrovia logistico di combattenti e traffici di ISIS.

La realtà è che la Turchia ha voluto prevenire che i curdi siriani creassero una continuità territoriale con i territori curdi iracheni, e potessero a quel punto puntare all’ultimo pezzo dello stato agognato: i circa 20 milioni di curdi che vivono nel sud della Turchia. Non a caso, i raid aerei di Ankara hanno colpito tanto ISIS quanto il PKK (Partito dei Lavoratori Curdi, l’organizzazione rivoluzionaria dei curdi turchi con basi in Iraq) e le YPG. In risposta alla violazione degli accordi di pace firmati di recente, i curdi hanno ripreso gli attacchi terroristici contro poliziotti e militari turchi.

La guerra alimenta l’immigrazione in Europa

La situazione appare ora più complicata, riaprendo la questione delle forze in campo contro il Califfo e, indirettamente, la partita per il potere in Siria, dove Assad dovrebbe avvantaggiarsi dell’offensiva turca contro i curdi e ISIS. Di sicuro c’è che l’instabilità del Medioriente continua ad alimentare una delle questioni più spinose per l’Italia e per l’Europa: l’immigrazione clandestina. Se il caos in Libia ha aperto in massa alle rotte e alla stragi estive dei barconi, la guerra in Siria, giunta al quinto anno, e le sue propaggini in Iraq spingono sempre più disperati ad avventurose traversate lungo i Balcani, per trovare rifugio nel cuore dell’Europa.

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La guerra in Siria: 200 mila morti e 4 milioni di rifugiati

Le priorità del governo di Bashar Al-Assad è di mantenere il controllo di Damasco, il centro del potere politico e militare, e della fascia costiera mediterranea, luogo di provenienza della famiglia e dei suoi correligionari Alawiti, una setta islamica considerata esoterica. Il primo obiettivo è stato garantito persino con armi chimiche, anche dopo il piano di distruzione degli arsenali coordinato con le Nazioni Unite nel 2013, e nonostante ISIS sia penetrato in una zona alla periferia della capitale. Il secondo è stato possibile grazie a Hezbollah. Il movimento sciita libanese, che ha nella Siria e in Assad il tramite per finanziamenti e rifornimenti dall’Iran, ha inviato migliaia di combattenti nella guerra siriana per mantenere il controllo delle vie di comunicazione tra Damasco, il mare e la zona di confine con il Libano.

La guerra civile siriana, che ha coinvolto anche formazioni ribelli laiche e religiose contro il regime, ha ucciso finora ora oltre 200 mila persone e intrappolato la popolazione tra violenze e prezzi di beni di prima necessità saliti anche del 50-100%. Il paese è spezzettato tra forze lealiste (ovest, sud), ISIS (nord, centro, est), curdi (nord-est), Fronte Al-Nusra (nord-ovest) con sacche di territorio controllate da altre formazioni laiche o religiose. Oltre ai bombardamenti della coalizione internazionale, anche l’aviazione di Israele è intervenuta almeno una decina di volte negli anni per colpire carichi di armi destinati ad Hezbollah in Libano, con cui ha un conto aperto dalla guerra di confine del 2006, o per rappresaglia a razzi sparati dal sud della Siria. Una riconciliazione in Siria tra interessi e obiettivi tanto diversi tra loro appare improbabile, nel breve termine, così come una vittoria militare di una delle fazioni coinvolte.

 

Gabriele Barbati è corrispondente per Mediaset a Gerusalemme dal novembre 2011. Si occupa di Israele e Territori palestinesi, ma anche delle vicende degli altri paesi dell’area, in modo particolare Egitto, Siria, Iran. Reporter Tv, cameraman e montatore, collabora anche con numerose testate periodiche. Ha seguito la guerra in Siria dal confine turco e giordano, oltreché dal Kurdistan iracheno. @gabrielebarbati (Twitter)