Gli USA (e il mondo) sotto la guida di Donald J. Trump

Donald Trump

CULTURA STORICA

In attesa del suo insediamento a fine gennaio, gli americani e il mondo si interrogano su come saranno i prossimi anni sotto la guida del 45°Presidente degli Stati Uniti: Donald J. Trump. 

Gabriele Barbati

In attesa del suo insediamento a fine gennaio, gli americani e il mondo si interrogano su come saranno i prossimi anni sotto la guida del 45°Presidente degli Stati Uniti: Donald J. Trump. Tradizionalmente, giornalisti e ricercatori analizzano il passato politico di ogni neo-eletto per ottenere delle indicazioni. Tuttavia, nel caso di Trump - «the ultimate outsider», ossia il candidato esterno per eccellenza al sistema politico come è stato fino ad oggi definito - il programma elettorale è vago e bisogna affidarsi ad altro per immaginare il futuro. Innanzitutto, ci sono le promesse fatte durante i comizi, sebbene potrebbero essere ridimensionate una volta insediato alla Casa Bianca. Abbiamo inoltre le dichiarazioni rese dopo la vittoria elettorale dell’8 novembre scorso. Infine, la vita passata del settantenne Trump, dagli inizi nei cantieri newyorkesi al fianco del padre costruttore, Frederick, può suggerire qualcosa sullo stile che porterà alla Presidenza.

Gli elettori “dimenticati”

In quasi un anno di campagna elettorale, l’ormai ex imprenditore edile si è proposto come paladino dei bisogni di milioni di elettori, a loro stesso dire “dimenticati”. Si tratta per lo più di uomini bianchi e ultra-trentenni, con un livello di istruzione medio-basso, che abitano negli stati centrali dell’America, quelli colpiti più gravemente dalla recente recessione economica e dalla disoccupazione. A questi, e a tante donne che lo hanno preferito rispetto a Hillary Clinton, a dispetto delle dichiarazioni sessiste di cui si è reso protagonista, Trump ha parlato direttamente e con linguaggio schietto in decine di comizi in giro per il paese e dal proprio profilo Twitter (@realDonaldTrump che conta oltre 15 milioni di seguaci). Per loro, ha coniato il «Rendiamo l’America di nuovo grande» e altri slogan che hanno fatto breccia, al punto da ottenere alle elezioni una decisiva maggioranza dei consensi in 30 dei 50 Stati USA.
Ma come prenderanno corpo ora questi slogan? Trump, l’affarista che ha sempre seguito l’istinto e il candidato a volte sboccato, sarà un Presidente altrettanto sopra le righe? Cerchiamo di capirlo, settore per settore, tenendo a mente che molto dipenderà dalla squadra di governo che lo affiancherà. È in corso infatti una sfida per le cariche chiave tra i suoi fedelissimi, come lui inclini al cambiamento radicale, e politici navigati più in linea con le politiche del Partito Repubblicano, che ha conquistato la maggioranza in entrambe le camere del Congresso, il Parlamento americano.

La riforma sanitaria

Donald Trump, sin dalle primarie repubblicane, dove si è presentato con un passato sia da Democratico che da Indipendente e senza il favore dei pronostici, ha insistito su pochi concetti chiari: benessere, nazionalismo, sicurezza. E su bersagli precisi, tra cui spicca l’Affordable Care Act, la legge che nel 2010 ha rivoluzionato il sistema sanitario americano introducendo, tra l’altro, sussidi federali che hanno esteso l’assistenza medica a 20 milioni di persone che fino ad allora non avevano potuto permettersi di acquistare un’assicurazione. Trump ha ripetuto spesso di volerla abolire poiché alcune novità della legge (conosciuta anche come Obamacare, dal nome dell’attuale Presidente Barack Obama, che l’ha fortemente voluta), come ad esempio l’obbligo di comprare una polizza tra quelle in offerta a livello statale, hanno aumentato i prezzi delle assicurazioni in media del 25%. Uno svantaggio questo che ha persuaso molti elettori, specialmente genitori di famiglie numerose della classe media, a votare per Trump. All’indomani della vittoria, tuttavia, diversi leader del Partito repubblicano hanno smesso di parlare di abolizione e menzionato piuttosto una «riforma parziale» della legge attraverso, per esempio, la sostituzione dei sussidi con sgravi fiscali. Nella sua prima intervista, all’emittente statunitense CBS, lo stesso Trump ha commentato che «il sistema attuale ha pregi e difetti». Negli Stati Uniti, non avere un'assicurazione significa affidarsi a programmi caritatevoli di ospedali e organizzazioni benefiche. Una nuova riforma sanitaria che revochi i sussidi, e in definitiva la maggiore equità sociale creata dall’Obamacare, potrebbe penalizzare le classi meno abbienti.

Diritto all’interruzione di gravidanza e diritti civili

A dividere ulteriormente la società potrebbe contribuire l’attesa nomina per il seggio tuttora vacante alla Corte suprema, il massimo organo giudiziario nazionale che decide a maggioranza dei nove membri. Si tratta di una prerogativa presidenziale e Trump ha ribadito che sceglierà un giudice conservatore, mettendo così in minoranza la componente progressista della Corte. L’obiettivo dichiarato è quello di ribaltare la storica sentenza Roe contro Wade del 1973, che ha riconosciuto il diritto all’interruzione di gravidanza negli Stati Uniti. Trump, come i candidati repubblicani del passato, ha avuto il sostegno dell’elettorato cristiano evangelico e di buona parte del voto cattolico, il quale, seppure in sintonia con i Democratici sui temi legati alle minoranze e alla giustizia sociale, rimane molto cauto sull’aborto. Consensi decisivi che il candidato repubblicano aveva pianificato di attrarre con una proposta politica molto conservatrice, ben rappresentata dalla scelta come vicepresidente di Mike Pence, ex governatore dello stato dell’Indiana notoriamente contrario all’interruzione di gravidanza e all’omosessualità.
«Sono a favore del diritto alla vita e alla possibilità che la decisione sulla legalità dell’aborto ritorni di competenza di ogni singolo Stato» ha precisato Trump nella sua prima intervista, durante cui è comparso con la terza moglie, Melania, e quattro dei suoi cinque figli. Tale dichiarazione del Presidente eletto ha avuto grande risonanza. Per diversi giorni successivi alle elezioni, infatti, migliaia di giovani in varie città di entrambe le coste dell’America, che hanno votato massicciamente per Clinton, sono scesi in piazza per difendere i diritti civili acquisiti contro «il pericolo Trump»; mentre molti sostenitori repubblicani hanno preso la campagna elettorale alla lettera e non vogliono sconti sulle promesse fatte, come quella sulla limitazione dell’aborto.

Un CEO per gli Stati Uniti

A parte questo confronto sui principi, gli appelli elettorali di Trump si sono concentrati più che altro sulle rivendicazioni sociali ed economiche della popolazione. Lo stesso magnate ha spesso offerto a modello la propria parabola personale: quella di un ragazzo estroverso ma ligio al dovere, penultimo di cinque figli cresciuti nella stretta disciplina paterna nella periferia di New York, educato in un collegio militare prima e poi a Wharton, una delle principali scuole di economia d’America, che è stato infine capace di sconfinare dall’oculato business familiare e di lanciarsi in affari milionari e a volte fallimentari, che hanno apposto il cognome di famiglia su lussuosi hotel di Manhattan, sui casinò di Atlantic City, su campi da golf in Florida e persino su una linea aerea. Non a caso, durante un comizio nello stato della Pennsylvania, il pubblico gli chiedeva di diventare il «CEO degli Stati Uniti», vale a dire, un leader capace di allontanare i dirigenti corrotti, come ci si aspetterebbe dall’amministratore delegato di un’azienda di successo.

L’immigrazione

Trump ha proposto due rimedi per risanare l’America: costruire un muro in acciaio e cemento al posto delle barriere che corrono lungo gran parte del confine tra gli USA e il Messico; e rimpatriare 11 milioni di migranti entrati illegalmente e tutt’ora privi di permesso di soggiorno negli Stati Uniti. Nelle intenzioni, ciò consentirebbe di abbassare la criminalità e, contemporaneamente, di difendere i posti di lavoro degli americani. Si tratta di due obiettivi legittimi, che tuttavia potrebbero non essere raggiunti con le soluzioni proposte. Secondo diversi economisti, infatti, gran parte dei migranti non ha precedenti penali e svolge lavori che altri non accettano. A questo si aggiunge il timore di spaccare molte famiglie della minoranza ispanica, dove i genitori sono illegali da anni ma i cui figli nati negli Stati Uniti hanno ottenuto automaticamente la cittadinanza. Nelle sue prime uscite, il Presidente eletto, che ha padre di origini tedesche e madre scozzese, ha corretto il tiro: «Il Muro in alcune aree potrebbe essere piuttosto una barriera di filo spinato. Prima di tutto deporteremo o arresteremo i 2 o 3 milioni di migranti illegali che sono responsabili di crimini seri. Poi - ha detto in un’intervista - ci concentreremo sugli altri». L’accento sulla sicurezza ha incluso spesso l’associazione tra l’Islam e il terrorismo internazionale. Trump ha invocato un «bando» all’ingresso di cittadini provenienti da paesi a maggioranza musulmana e ai programmi di accoglienza di rifugiati siriani, salvo virare dopo la vittoria alle urne su «controlli molto severi all’immigrazione».

Più posti di lavoro

La retorica contro gli stranieri è stata inserita in un ritratto molto cupo del paese, la cui ripresa economica iniziata dopo la crisi del 2008 non ha ancora ridotto la disoccupazione in diversi stati. Nel suo primo discorso la notte del voto, Trump ha annunciato un grande piano per ricostruire ponti, strade e infrastrutture nazionali. Tale proposta risponde a una necessità reale e creerebbe milioni di impieghi. Finora non è chiaro, tuttavia, come verrebbe finanziata, soprattutto considerando il contemporaneo impegno del futuro Presidente a tagliare le tasse, riducendo il gettito fiscale del prossimo decennio di circa seimila miliardi di dollari. Di certo, il Presidente eletto farà risparmiare alle casse pubbliche lo stipendio che gli spetterebbe, circa 400mila dollari annui. «Prenderò un dollaro simbolico, ho già tanti soldi», ha detto Trump in TV. Dovrà fare i conti, però, con il conflitto di interessi che si è creato tra la sua nuova posizione pubblica e gli affari delle sue società, tra cui figurano numerosi contratti di licenza del marchio Trump a progetti imprenditoriali negli USA e all’estero.

Lotta dichiarata alla globalizzazione

Agli occhi degli elettori repubblicani che abbiamo incontrato ai comizi, il resto del mondo non è un bel posto. Soprattutto il Messico e la Cina, presunti colpevoli del fallimento di migliaia di imprese statunitensi con la loro concorrenza sleale. Trump si è impegnato perciò a imporre dazi alle importazioni da questi paesi, per rendere più conveniente comprare il made in USA, una posizione sostenuta sin dalla fine degli anni novanta in alcuni libri in cui ipotizzava anche un impegno personale in politica. Per ora, non è chiaro come la nuova amministrazione Trump interromperà gli accordi internazionali in essere, come il tanto vituperato NAFTA, il patto di libero scambio con Canada e Messico, e come gestirà eventuali perdite economiche e ritorsioni; Trump ha dichiarato invece che durante il primo giorno di lavoro alla Casa Bianca firmerà l’ordine esecutivo per recedere dal TPP, l’accordo di partnership commerciale che sarebbe dovuto partire prossimamente tra Stati Uniti e alcuni paesi dell’Estremo Oriente. La Cina, per esempio, potrebbe istituire a sua volta dei dazi sui prodotti americani, aprendo una guerra commerciale che rischierebbe di essere molto dannosa per industrie e consumatori negli Stati Uniti.

Ambiente e cambiamento climatico

«Torneremo al bel carbone pulito!» esortava il candidato repubblicano in un comizio in Ohio ricevendo un’ovazione da ex minatori e operai presenti, a dispetto dei danni ambientali prodotti dall’estrazione e dalla combustione del carbone. In generale, il futuro Presidente ha mostrato scarsa sensibilità su ambiente e cambiamento climatico. Le nomine in corso nell’Agenzia per la Protezione ambientale e al Dipartimento dell’energia hanno finora privilegiato personalità più favorevoli alle estrazioni petrolifere che agli investimenti sulle energie rinnovabili avviati da Obama. Gli Stati Uniti, il maggiore responsabile dell’inquinamento mondiale insieme con la Cina, hanno firmato lo scorso anno il Trattato di Parigi, che prevede una riduzione delle emissioni di gas serra e del riscaldamento del pianeta. Trump però ha dichiarato di volerlo «rinegoziare o abbandonare». Alla base di questa posizione, vi sono ragioni sia ideologiche sia economiche. Nella squadra che ha accompagnato il nuovo Presidente nella sua campagna elettorale e nella costruzione del suo esecutivo, infatti, figurano docenti universitari che hanno più volte messo in dubbio i legami tra inquinamento e riscaldamento del pianeta. Inoltre, la priorità dichiarata di creare posti di lavoro in America rilanciando l’industria pesante, come quella carbonifera e siderurgica, porta con sé inevitabilmente la produzione di maggiori emissioni di Co2 nell’aria.

La politica estera: America first

La politica estera del futuro Presidente è stata racchiusa finora in dichiarazioni generiche sul Medioriente. Trump ha spesso accusato l’amministrazione Obama di non essere stata efficace in Iraq e in Siria, né politicamente né militarmente, al punto da avere «favorito» l’espansione dell’ISIS e gli attacchi terroristici che hanno colpito l’Europa e gli Stati Uniti. Lo stesso accordo firmato dagli Stati Uniti lo scorso anno con l’Iran - per terminare il programma di arricchimento dell’uranio che avrebbe potuto mettere il paese in condizione a breve di costruire un’arma nucleare - è stato giudicato troppo debole e incapace di eliminare davvero il pericolo atomico iraniano.
Per il resto, Trump ha insistito su un principio generale: America First, vale a dire gli interessi americani vengono prima di tutto. Simbolica, in questo senso, la sua prima intervista: «Con le migliaia di miliardi spese nelle ultime guerre, avremmo potuto ricostruire l’America due volte». Il fatto che Trump abbia promesso al contempo una notevole espansione di esercito, marina e aviazione non chiarisce se gli Stati Uniti saranno più o meno attivi sui fronti caldi del mondo rispetto alle ere Bush e Obama, né come si coordineranno con altri governi. Durante la campagna elettorale, Trump ha mostrato simpatia per il presidente russo, Vladimir Putin, e per la sua politica “senza compromessi”, all’interno del proprio paese e all’estero. Quanto all’Europa, ha citato raramente l’Unione nei sui interventi, accennando solo a un possibile «ripensamento» della NATO, l’alleanza militare atlantica. Dall’asse diplomatico e commerciale che gli Stati Uniti stabiliranno con la Russia e la Cina, con l’Unione europea e con i Paesi del Golfo, passando per Israele, dipenderà molto del futuro del Medioriente e del mondo intero. Da qui fino, almeno, alle prossime elezioni presidenziali del 2020.
 

 

Gabriele Barbati è un giornalista freelance e vive a Washington. In precedenza, ha lavorato per dieci anni come corrispondente: prima da Pechino per SkyTg24 e Radio Popolare, poi da Gerusalemme per le reti Mediaset. È autore dell’e-book Trappola Gaza. Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina (Inform-ant, 2015). Per Pearson, è autore di approfondimenti su temi di attualità per il sito StoriaLive e per la newsletter di storia.