I Comitati di assistenza ebraici in Italia e la Delegazione di Assistenza agli Emigranti Ebrei (1920-1947)

Ghetto ebraico

CULTURA STORICA

A partire dalla fine del primo conflitto mondiale, la popolazione ebraica dell’Europa orientale e residente nei territori del Terzo Reich tenta di emigrare oltreoceano o verso la Palestina, utilizzando l’Italia come paese di transito. In Italia nascono Comitati ebraici per agevolare questo processo di emigrazione.

Marco Caviglia

L’emigrazione degli ebrei europei nel primo dopoguerra e la nascita del Comitato Italiano di Assistenza agli Emigranti Ebrei di Trieste

Con la fine della Prima guerra mondiale, i tre imperi che all’inizio dell’Ottocento occupavano l’Europa orientale – russo, asburgico e ottomano – scomparvero. Il loro posto venne preso da più di quindici nuovi Stati, più o meno nazionali o indipendenti1, in un processo accompagnato da violenti spostamenti di confine, grandi migrazioni di popolazioni, deportazioni forzate e comparsa di nuove ideologie nazionaliste.
Le condizioni di vita, già tragiche in generale per tutti, divennero impossibili per gli ebrei che vivevano in Stati con enormi problemi interni e difficili relazioni internazionali con la totalità dei vicini. In questo contesto si accentuarono le politiche autoritarie, aggressive e persecutorie nei confronti delle minoranze etniche, religiose o politiche. Per tali ragioni, circa un milione di ebrei si trovarono nella necessità di lasciare il proprio paese, mentre tutta l’Europa era traumatizzata dalle conseguenze della guerra.
Le Americhe furono la meta privilegiata di questo flusso migratorio proveniente principalmente dalla Polonia e dal nord-est Europa. Intanto il movimento sionista2 aveva robustamente preso piede e, con la dichiarazione di Balfour3 e la sua accettazione internazionale, un numero sempre crescente di persone prese la via per la Palestina4.
Questi flussi migratori di ebrei verso gli Stati Uniti, l’America meridionale e la Palestina si indirizzarono verso i porti mediterranei e l’Italia di conseguenza, che svolse un ruolo fondamentale come luogo di transito. Le Comunità ebraiche si trovano pertanto coinvolte direttamente, specie quelle che risedevano in importanti città portuali come Trieste, Venezia, Genova e Napoli. Nasceva il problema di creare strutture organizzative in grado di affrontare questo nuovo fenomeno.
Il problema fu dibattuto in seno al Congresso del Consorzio delle Comunità israelitiche Italiane5, tenutosi a Roma il 20 giugno 1920. In tale sede, su proposta della Comunità di Trieste e Venezia si deliberò la trasformazione di un preesistente Comitato di Protezione degli Emigranti Ebrei in Comitato Italiano di Assistenza agli Emigranti Ebrei di Trieste. Il 12 luglio 1921 l’ispettorato dell’Emigrazione di Trieste delegò tale Comitato all’assistenza e al controllo di tutte le operazioni di arrivo, soggiorno e partenza degli emigranti ebrei nel porto di Trieste.
Superata la fase organizzativa, il Comitato dovette occuparsi dell’assistenza materiale all’emigrazione ebraica. Essa incominciava col grosso lavoro di controllo sanitario dei profughi e la loro eventuale disinfezione a cura del Civico Ospedale Regina Elena; continuava con la gestione del servizio di trasporto dei bagagli, della loro sterilizzazione e imbarco; comprendeva l’offerta di alloggio e refezione, l’assistenza consolare (spesso i documenti non erano in regola) e si concludeva con l’imbarco dei profughi e l’assistenza sui piroscafi. Il Comitato proseguì la sua opera anche sotto il regime fascista fino al settembre del 1943, quando avvenne l’occupazione tedesca.

Il Comitato di Assistenza per gli Ebrei Profughi dalla Germania

La situazione degli ebrei si fece particolarmente dura nella Germania nazista in seguito alle misure antisemite messe in atto da Hitler fin dalla sua elezione nel 1933.
Nel 1933 gli ebrei in Germania erano circa 525.000 e costituivano lo 0,8% della popolazione. Tra il 1934 ed il 1937 il numero degli emigranti – dai 21.000 ai 25.000 l’anno – rimase costante, ma con l’affermarsi di un aperto regime di terrore che ormai minacciava la vita stessa delle persone, le emigrazioni subirono un’impennata: 40.000 nel 1938 e 78.000 nel 1939. La mèta privilegiata furono gli Stati Uniti d’America, ma anche i paesi europei ospitarono gli ebrei in fuga dalla barbarie nazista. La Francia ad esempio ne ospitò 55.000. L’Italia, fino al giugno del 1940, ospitò 13.000 ebrei esuli dalla Germania e dall’Austria. Nei porti italiani si imbarcarono inoltre decine di migliaia di profughi provenienti dalla Germania e dall’Austria e diretti soprattutto verso la Palestina, attraverso il porto di Trieste, e verso l’America del Sud, tramite i porti di Genova e Napoli.
Nell’aprile del 1933, per iniziativa di un gruppo di ebrei milanesi, nacque il Comitato Italiano di Assistenza per gli Ebrei Profughi della Germania. Lo scopo del Comitato era quello di contribuire a far fronte, nella città di Milano, alle esigenze assistenziali. L’attività del Comitato consistette in un’intensa attività di raccolta fondi che venivano quasi per intero spesi per il vitto e l’alloggio degli assistiti; la parte rimanente veniva utilizzata per i biglietti ferroviari necessari ad arrivare nei porti di partenza.

Il Comitato di Assistenza per gli Ebrei in Italia

Con la promulgazione delle leggi antiebraiche in Italia, a partire dal settembre del 1938 non furono più solamente gli ebrei stranieri ad aver bisogno di “assistenza”. Il Comitato Italiano di Assistenza per gli Ebrei Profughi della Germania nel 1938 cambiò nome in Comitato di Assistenza per gli ebrei in Italia (C.A.E.I o COMASEBIT). Gli scopi che si volevano raggiungere erano i seguenti:
• creare un inserimento professionale per tutti coloro che in seguito alle disposizioni razziali avessero perso il proprio impiego;
• raccogliere ogni elemento informativo statistico sull’ebraismo italiano;
• offrire assistenza consolare per l’emigrazione a chi non fosse in grado di farlo.
Per raggiungere questi obiettivi il COMASEBIT si proponeva di promuovere l’apertura di scuole agricole, professionali e linguistiche; di pubblicare opuscoli, riviste, libri e di prendere accordi con enti pubblici e con organismi assistenziali ebraici sia italiani che stranieri. Fu creato subito anche un ufficio di collocamento consistente in alcuni registri su cui venivano inserite le domande di lavoro e le offerte di impiego con tutte le informazioni di dettaglio relative sia all’offerta che al richiedente.
A seguito dell’inasprimento delle misure antiebraiche in Italia, il COMASEBIT venne sciolto dalle autorità fasciste a fine agosto del 1939.
In circa un anno di vita il Comitato non riuscì a costruire le strutture assistenziali che si era prefisso: la brusca chiusura dettata dal regime, che non aveva più intenzione di dialogare con singoli Comitati, impedì di portare a termine qualsivoglia progetto.

La Delegazione di Assistenza agli Emigranti Ebrei (DELASEM)

Lo scioglimento del COMASEBIT fu un colpo durissimo per tutto il mondo ebraico italiano e determinò un difficile periodo di crisi per l’UCII6 che fin dal settembre ‘39 si adoperò per costruire un organo che fosse in grado, se non di creare un inserimento professionale a chi l’avesse perso a seguito delle leggi razziali, di offrire almeno assistenza ai profughi ebrei presenti nel paese, la cui condizione era aggravata soprattutto dopo l’attacco della Germania alla Polonia.
A novembre del 1939 i vertici dell’UCII furono rinnovati. Le elezioni designarono come presidente Dante Almansi7 e vicepresidente l’avvocato Lelio Vittorio Valobra. La presenza di Almansi a capo dell’UCII si rivelò di grande importanza: in quanto vice capo della polizia durante il primo governo Mussolini e consigliere della Corte dei conti, egli conosceva bene i meccanismi del funzionamento dell’apparato, gli ambienti in cui avrebbe dovuto agire e gli uomini con cui trattare, con molti dei quali, suoi ex colleghi, aveva mantenuto ottimi rapporti.
Il neo presidente propose il progetto di una nuova istituzione di soccorso che fosse in grado di sostituire in parte il COMASEBIT. Il nuovo organismo avrebbe dovuto differenziarsi dal vecchio Comitato, non più un organismo a sé stante, bensì una Delegazione dipendente completamente dall’UCII che avrebbe svolto la funzione di garante giuridico e rappresentante di fronte al ministero dell’Interno. Malgrado ciò, essa avrebbe dovuto mantenere la sua piena autonomia finanziaria, potendo contare sugli aiuti economici delle Comunità ebraiche, dei singoli donatori e delle grandi organizzazioni assistenziali ebraiche estere come L’American Jewish Joint Distribution Commitee8. A dicembre del 1939 nacque la Delegazione di Assistenza agli Emigranti Ebrei (DELASEM), la cui presidenza fu affidata a Lelio Vittorio Valobra9. La Delegazione si poneva due obiettivi principali: facilitare l’emigrazione degli ebrei stranieri e italiani10 che si trovavano nel Regno e porgere loro l’assistenza necessaria per organizzare l’emigrazione.
In quasi tutte le città italiane dove fosse presente una Comunità ebraica furono istituiti uffici periferici, mentre la sede principale venne istituita a Genova, soprattutto per l’importanza del suo porto nel processo di emigrazione.
La sinergia tra l’UCII, la DELASEM e le singole Comunità riuscì ad assistere gli ebrei (principalmente stranieri) disseminati in tutta Italia nel processo di emigrazione. Valobra fu instancabile nella ricerca di fondi. Tra il dicembre del 1939 ed il giugno del 1940, ben 2000 persone riuscirono ad emigrare via mare. Le forme di assistenza furono di diverso genere: vitto e alloggio, documenti, assistenza medico sanitaria, conservazione e distribuzione di vestiario invernale.

L’assistenza materiale e spirituale nei campi di internamento fascisti

Con l’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno del 1940, vennero applicate le misure per la reclusione nei campi d’internamento fascisti11. In un’Italia che già da anni applicava le leggi razziali12, il pregiudizio secondo cui un ebreo fosse un traditore, un alleato dei paesi nemici, o comunque una persona infida ed ostile al regime era profondamente radicato. La maggior parte degli ebrei stranieri e apolidi in Italia venne rinchiusa nel campo di Ferramonti di Tarsia (Cosenza), mentre gli ebrei italiani furono disseminati in campi in tutta la penisola.
Fra il giugno del 1940 e il luglio del 1943 furono circa 400 gli ebrei internati per periodi più o meno lunghi. Questa cifra a prima vista potrebbe apparire di scarsa rilevanza, ma se rapportata all’entità numerica dell’ebraismo italiano dell’epoca (circa 1,1 per mille della popolazione nazionale) essa dimostra che la minoranza ebraica fu ampiamente colpita.
L’impegno della DELASEM dagli ultimi mesi del 1940 fino al settembre del 1943 si concentrò, oltre che nell’ambito dell’emigrazione, anche nello sforzo di rendere il più tollerabili possibile le condizioni di vita nei campi d’internamento.
L’assistenza materiale consisteva nell’invio di sovvenzioni in denaro ed in materiali quali coperte, indumenti, medicinali; comprendeva anche l’interessamento per un infinito numero di piccole e grandi difficoltà degli internati, come il problema della posta o della riscossione dei vaglia postali nazionali e internazionali. L’assistenza spirituale consisteva nel cercare di ottenere il permesso di inviare dei rabbini per confortare i detenuti o per la preparazione di cerimonie in occasione di feste rituali13. Un ampio sforzo era impiegato infine per risolvere l’angoscioso problema della ricerca dei membri di famiglie disperse e della riunione dei nuclei famigliari i cui componenti erano internati in luoghi diversi.
Fino all’armistizio del 1943 la vita degli ebrei stranieri e italiani nei campi d’internamento fascisti fu simile a quella degli altri prigionieri. Nei mesi successivi all’8 settembre, il destino degli ebrei che vivevano nelle zone sottoposte all’occupazione nazista e al governo della Repubblica Sociale Italiana fu invece segnato dagli arresti, dalle fughe e dalle deportazioni verso i campi di sterminio.

Il periodo di clandestinità

Dal settembre del 1943, la DELASEM entrò in clandestinità e le sue possibilità di offrire assistenza diminuirono drasticamente. Tuttavia, nonostante i rischi gravissimi, continuò ad operare anche durante l’occupazione e rimase attiva in modo particolare a Genova e a Roma. Tra il 1943 ed il 1945 riuscì a fornire aiuti economici e documenti falsi a centinaia di ebrei. Uno dei suoi atti più importanti fu il salvataggio di un gruppo di ragazzi ebrei - più di settanta, alcuni dei quali ancora bambini - nascosti in una villa vicino a Nonantola: Villa Emma. A seguito dello stabilirsi di un comando tedesco a Nonantola, i ragazzi vennero messi in salvo grazie alla Delegazione e alla popolazione del luogo, che offrì loro rifugio fino alla fuga verso la Svizzera.
Anche dopo la fine della guerra l’impegno della DELASEM nell’assistenza all’emigrazione non si fermò e proseguì fino alla fine del 1947, quando la Delegazione lasciò il testimone ad altre associazioni sia nazionali che internazionali, come l’American Joint Distribution Commitee o l’Hebrew Immigrant Aid Society.

Un aspetto trascurato della storia ebraica del Novecento

In Italia, nella prima metà del Novecento, di fronte alle difficoltà dovute alla gestione dei flussi migratori provenienti da altri paesi e alla violenza antisemita del fascismo e del nazismo, le istituzioni e la popolazione ebraica hanno dimostrato un encomiabile spirito di solidarietà ed ottime capacità organizzative e diplomatiche. I Comitati di assistenza e in particolare la Delegazione di Assistenza agli Emigranti Ebrei si sono dimostrate realtà capaci di dialogare con le istituzioni e mettere in salvo migliaia di correligionari. Questo spirito di solidarietà e l’operato dell’ampia rete di assistenza sono aspetti poco noti della storia degli ebrei in Italia che meritano di essere studiati e approfonditi.

Note

1. Finlandia, Estonia, Lettonia, Polonia, Germania, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Serbia (poi Jugoslavia), Bulgaria, Albania, Grecia, Turchia e, sia pure formalmente, le repubbliche socialiste di Russia, Ucraina, Bielorussia, Armenia e Georgia federatisi nel 1922 a formare l’Unione Sovietica.
2. Ideologia e movimento politico diffusi alla fine del XIX secolo per opera dell’ebreo ungherese Theodor Herzl, volti alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina (da Sion, nome di una collina di Gerusalemme).
3. Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri del Regno Unito, Arthur Balfour, inviò una lettera a Lord Walter Rothschild, uno dei principali leader della comunità ebraica nel paese, in cui sosteneva che il suo governo si sarebbe impegnato per creare uno Stato ebraico in Palestina.
4. La Palestina venne sempre più rapidamente popolandosi di ebrei europei che nel 1927 superarono il 20% della popolazione.
5. L’ente centrale che raggruppava e guidava le Comunità ebraiche italiane, prima di assumere, in base alla legge n. 1731 del 10 ottobre 1930, la denominazione di Unione delle Comunità Israelitiche Italiane.
6. Unione delle Comunità Israelitiche Italiane.
7. Dante Almansi (Parma 1877 – Roma 1949), laureato in legge, aveva ricoperto vari incarichi. Era stato segretario di Prefettura, R. Commissario, sottoprefetto e vice-direttore generale della Polizia. Nel 1922 era stato promosso prefetto, ma dal 1922 al 1938, per sua richiesta aveva assunto solo incarichi amministrativi. Fu messo in pensione per motivi razziali.
8. L’American Jewish Joint Distribution Commitee (detta anche JOINT) è un’organizzazione ebraica americana, non politica, il cui compito è quello di aiutare gli ebrei in stato di necessità. Viene fondata nel 1914 come comitato congiunto di distribuzione di fondi americani per soccorrere gli ebrei sofferenti a causa della guerra. Negli anni a seguire rivolge la sua opera di assistenza verso gli ebrei che fuggono dall’Europa nazista.
9. Lelio Vittorio Valobra (Genova 1900 – 1976), laureato in legge, fu volontario nella Prima guerra mondiale e frequentò la scuola Cavalleria di Pinerolo. Per anni consigliere dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e poi vice-presidente, diresse con grande umanità e coraggio la DELASEM, continuando anche in Svizzera la sua opera. Fu il primo console d’Israele in Italia; chiuso per ragioni economiche il consolato di Genova, ebbe la qualifica di Console generale.
10. La maggior parte degli ebrei italiani che decise di emigrare lasciò il paese per proprio conto senza ricorrere all’aiuto della DELASEM.
11. I Civili internati, tramite direttive provenienti dal ministero dell’Interno, rientravano in due diversi status: internati per motivi di guerra, cioè i civili stranieri la cui pericolosità era riconducibile al fatto di essere “nemici”, o internati per motivi di polizia (o di pubblica sicurezza), in gran parte italiani.
12. Con il decreto del 7 settembre 1938 n. 1381 (Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri) e con quello datato 17 novembre 1938 n. 1728 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana) venne stabilito che gli ebrei entrati nel Regno dopo il 1° gennaio 1919 dovessero abbandonare il paese entro sei mesi (pena la loro espulsione), e che tutte le cittadinanze italiane concesse agli ebrei dopo quella stessa data dovevano essere revocate. Tuttavia questa annunciata espulsione non venne mai attuata.
13. Per esempio in occasione del Pesach (la Pasqua ebraica che ricorda la liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto), laddove consentito, era necessario officiare particolari preghiere e fornire agli internati determinati cibi, come il pane azzimo, per le cerimonie religiose legate a questa ricorrenza.

Bibliografia essenziale

Sandro Antonini, Delasem: storia della più grande organizzazione ebraica italiana di soccorso durante la seconda guerra mondiale, Genova, De Ferrari 2000.
Massimo Leone, Le organizzazioni di soccorso ebraiche in età fascista (1918 -1945), Roma, Carucci 1983.
Rosa Paini, I sentieri della speranza. Profughi ebrei, Italia fascista e la «Delasem», Milano, Xenia, 1988.
Settimio Sorani, L'assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1941). Contributo alla storia della DELASEM, Roma, Carucci 1983.
Klaus Voitg, Il rifugio precario, Firenze, La Nuova Italia 1993.
Susanna Zuccotti, Père Marie-Benoît And Jewish Rescue, Bloomington, Indiana University Press, 2013.

 

Marco Caviglia si è laureato in storia contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma ed ha conseguito un master in Didattica della Shoah presso l’Università di Roma Tre. Da anni collabora con la Fondazione Museo della Shoah di Roma, occupandosi del settore archivio e biblioteca. Ha collaborato alla realizzazione di diverse mostre sul tema della Shoah esposte, dal 2016, presso la sede museale di Casina dei Vallati. Studia in particolare il tema delle associazioni ebraiche di assistenza in Italia nella prima metà del Novecento.

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