Unicità della Shoah? Oltre il “secolo del genocidio”

Shoah

CULTURA STORICA

Lo storico Giovanni Borgognone illustra le recenti tendenze degli Holocaust Studies che allargano la prospettiva delle ricerche, da un lato, verso un contesto di “soluzioni finali” che costituiscono i precedenti della Shoah (e i suoi successori) nello scenario ampio delle violenze del Novecento, dall’altro, verso le diverse forme di genocidio.

Giovanni Borgognone

L’Olocausto nell’«epoca degli estremi»

Uno dei problemi più complessi con cui sia la storiografia sia la riflessione filosofica sulla Shoah, o Olocausto (dopo una fase in cui gli studiosi hanno nettamente preferito il primo termine, oggi generalmente accolgono entrambi), devono continuare a confrontarsi è quello dell’«unicità», per un verso, della distruzione degli ebrei d’Europa da parte del nazifascismo nel corso della Seconda guerra mondiale, e della sua collocazione, per altro verso, in un quadro storico più ampio. In quello, ad esempio, dell’«industrializzazione dei massacri» e dell’«estetica della morte» generate dalla Grande guerra, la cui ombra si è estesa su tutto il corso del Novecento.
La Shoah – avvertiva Enzo Traverso nell’Introduzione alla Storia della Shoah, Utet (2005) – si presenta come una «fulminea rottura della storia», che non può essere ridotta a una sorta di «catastrofe annunciata, come gli uragani di cui i meteorologi studiano la formazione e lo svolgimento». Detto in altri termini, studiare le cause e i processi in cui si colloca la Shoah non deve portare in alcun modo a considerare l’evento come una loro «conseguenza meccanica, fluida e ineluttabile». Tuttavia, per altro verso, la storiografia ha messo in luce come lo sterminio degli ebrei debba essere studiato prendendo in esame tutta una se rie di fattori e processi di più lungo corso. A partire dalle articolate trasformazioni dell’antisemitismo, dall’antigiudaismo cristiano all’antiebraismo socialista (l’ebreo rappresentato come corruttore della società attraverso il denaro), fino all’antisemitismo come elemento centrale dell’apparato ideologico dei regimi fascisti (nel quale convergevano la radicata idea di un «complotto ebraico», l’accusa rivolta agli ebrei di sfruttare economicamente la società in cui vivevano e la loro considerazione come nemici interni della nazione). Altra questione significativa per gli Holocaust studies sono i cosiddetti «massacri d’oltremare», ovvero le atrocità e gli stermini avvenuti nelle colonie. Questo riferimento risale già, a ben vedere, alle riflessioni di Hannah Arendt sul nesso tra imperialismo, da un lato, e totalitarismo e «soluzioni finali», dall’altro, che in anni più recenti è stato messo a fuoco e approfondito dalla storiografia. Un’utile panoramica è offerta da un saggio di Nicola Labanca incluso nella già citata Storia della Shoah. In tale quadro si situa, ad esempio, la riscoperta dello sterminio degli herero, nell’Africa sud-occidentale, teorizzato e messo in pratica nel 1904-05 dal generale tedesco Lothar von Trotha.
Ripensata alla luce di queste nuove prospettive, la Shoah si colloca, dunque, nello scenario più ampio delle violenze del Novecento, descritto efficacemente da Eric J. Hobsbawm «epoca degli estremi» (The Age of Extremes era il titolo dell’edizione originale de Il secolo breve). Il genocidio – è stato infatti osservato – è un tragico emblema del XX secolo. Su tali basi Robert Gellately e Ben Kiernan curavano alcuni anni fa un importante volume intitolato The Specter of Genocide (2003), tradotto in italiano, per l’appunto, come Il secolo del genocidio. Anche in questo caso, una particolare attenzione era dedicata alle «soluzioni finali» nelle colonie; non mancava, inoltre, un saggio sul genocidio armeno, ad opera di un grande storico dell’età della Prima guerra mondiale, Jay Winter; infine, una intera sezione del libro forniva una panoramica dei genocidi e degli eccidi di massa dopo il 1945, dalla Cambogia al Ruanda, dal Guatemala alla pulizia etnica nella ex Iugoslavia.

L’onnipresenza storica di genocidi e democidi

Una prospettiva ancora più ampia, e in un certo senso più fosca, è quella delineata dal più recente volume del filosofo e storico del pensiero politico Pier Paolo Portinaro, L’imperativo di uccidere (2017). L’autore mette in discussione la stessa qualificazione del XX secolo come «secolo dei genocidi»: in realtà l’intera storia umana – egli avverte – «è intessuta, tra le sue pagine più buie, di genocidi».
Da questa prospettiva, la Shoah ha rappresentato, a suo avviso, «uno shock ermeneutico»; la stessa attribuzione di «unicità» all’Olocausto ha, per molti versi, permesso di scoprire che i genocidi sono onnipresenti nella storia, appartenendo tanto alle pratiche violente delle «società barbare» quanto «al culmine del processo di civilizzazione e ai vertici della modernità».
Se, dunque, vi sono molte buone ragioni per sostenere l’unicità dell’Olocausto, altrettante, secondo Portinaro, spingono ad approfondire la comparazione e a cercare di dare spiegazioni a eventi che una certa antropologia moralistica si ostina, invece, a definire «inconcepibili». La prospettiva «comparativistica» ha, in effetti, prodotto risultati importanti negli ultimi anni.
Accanto al genocidio, inteso come intenzionale sterminio di particolari gruppi etnici o religiosi, è stato introdotto il concetto di «democidio», più generale, per indicare le forme di violenza estrema da parte di apparati pubblici di potere nei confronti dei loro stessi cittadini. Il termine è stato proposto da Rudolf J. Rummel, in riferimento alla violenza omicida degli Stati; tale nozione si articolerebbe poi nelle specie del «genocidio», del «politicidio» (l’eliminazione degli oppositori politici) e del «massacro» (ogni altra forma di violenza ripetuta e sistematica contro i civili). Michael Mann ha introdotto, poi, nozioni come quelle di «classicidio» e «fratricidio». A proposito delle forme di democidio perpetrate dallo stalinismo, al classicidio può essere ricondotta quella che portò, tra l’altro, allo sterminio della classe intellettuale ucraina; il fratricidio, invece, consistette nell’eliminazione, attraverso le «purghe», di innumerevoli membri dello stesso Partito bolscevico. In entrambi i casi, a prevalere non furono considerazioni etniche, quanto di classe e ideologiche. Al di là delle terminologie, talvolta divenute complesse in modo sostanzialmente superfluo, la storiografia ha potuto, sulla base di tale allargamento di prospettiva, condurre nuove e proficue indagini.

Geografia, ideologia e politica dello sterminio

Certo, tra le recenti tendenze degli studi sulle violenze genocidiarie e democidiarie non sono mancati approcci discutibili e controversi, come quello adottato nel 2010 da Timothy Snyder nel volume Bloodlands: Europe between Hitler and Stalin. Le «terre di sangue» a cui egli fa riferimento in tale lavoro sono, al di là delle limitazioni poste dalle frontiere spaziali, quelle della Polonia, dei paesi baltici, dell’Ucraina e della Bielorussia. 14 milioni di persone le vittime, tra la carestia imposta dal regime bolscevico al popolo ucraino e l’invasione nazista. Tale approccio «geografico» conduce, tuttavia, Snyder a una spiegazione in fondo scontata e paradossalmente, nonostante la prospettiva evocata dal titolo, non vincolata ad alcun deter-minato ambito spaziale: l’inevitabile ricerca di un capro espiatorio collettivo come connotato astrattamente comune ai due sistemi politici, sovietico e nazista, entrambi caratterizzati da un’«utopia trasformativa».
Del successivo lavoro di Snyder, Black Earth: The Holocaust as History and Warning (2015), colpisce, poi, l’idea di un disegno hitleriano anti-statuale. Il Führer, secondo l’autore, ambì a realizzare un mondo «abitato dalle razze» (e dunque senza ebrei, considerati la «non-razza») e non da Stati. Hitler, a suo avviso, non era pertanto un «nazionalista tedesco» ma «un anarchico zoologo». Il risultato di questo approccio, come ha osservato Giovanni Gozzini dalle pagine di «Passato e presente», è di ignorare «l’orizzonte della politica», fondamentale, in realtà, per collocare nel corretto quadro storico lo sterminio degli ebrei. Snyder perde di vista il significativo precedente dei meto di coloniali di governo delle potenze europee. Non tiene conto, più in generale, della centralità delle istituzioni statuali, concepite come «strumenti per imporre il potere di pochi». Al termine del libro, l’autore prospetta come via di uscita dalla «paura della fame» e da tutte le manifestazioni, di ieri e di oggi, dell’ideologia della «lotta per la sopravvivenza», da cui prese le mosse già il Lebensraum nazista, la via della «rivoluzione verde»; come osserva però Gozzini, riprendendo a sua volta l’economista Amartya Sen, molte crisi di sussistenza antiche e odierne, in realtà, «non dipendono da un calo delle risorse disponibili, ma dall’esclusione deliberata di determinati gruppi umani ad accedervi». Il nucleo del problema risiede, in ultima analisi, in «Stati che funzionano in modo divisivo, non troppo diversamente da come funzionava lo Stato (non l’anarchia) di Hitler».

Femminicidio

Negli ultimi decenni, l’allargamento delle prospettive degli studi su genocidi e democidi ha avuto il merito di consentire l’introduzione della nozione di «femminicidio». A partire dagli studi della criminologa femminista sudafricana Diana E.H. Russell, esso è entrato in circolazione nel dibattito pubblico, per indicare l’assassinio «di donne da parte di uomini, in quanto donne». Obiettivo era, evidentemente, di segnalarne matrici quale la misoginia, che altrimenti parole neutre dal punto di vista di genere, come assassinio e delitto, non restituiscono. La nozione di «femminicidio» ha fatto il suo ingresso, dunque, nella letteratura accademica di orientamento femminista. Ha consentito di mettere a fuoco alcune gravi questioni recenti, come ad esempio le uccisioni e sparizioni di donne a Ciudad Juárez, a partire dai primi anni novanta. Si tratta di una cittadina nella regione nordmessicana di Chihuahua, al confine con gli Stati Uniti, in uno dei principali «corridoi» attraverso cui la droga dalla Colombia arriva nell’America settentrionale. Migliaia di donne assassinate; ragazze uscite da scuola e svanite nel nulla; famiglie che attendono inutilmente notizie e spiegazioni. Molte delle vittime lavoravano nelle maquilladoras, stabilimenti industriali per assemblaggi, di proprietà di imprese statunitensi, ubicati lungo la frontiera. La sottocategoria del femminicidio che si potrebbe qui chiamare in causa, secondo Portinaro, è quella dello «stupro della muta di caccia»: un’azione di violenza collettiva avente come fine il possesso delle donne. Accanto ad essa si collocano diverse altre forme di femminicidio, tra cui l’aborto selettivo e l’infanticidio femminile: impressionanti sono, da questo punto di vista, i casi dell’India e della Cina, dove l’imposizione della politica del figlio unico, introdotta con piani di controllo delle nascite a fine anni settanta per contrastare l’incremento demografico, e abolita solo nel 2013, ha causato milioni di aborti, che dal 1997 l’Organizzazione mondiale della sanità ha descritto come atti di violenza contro le donne.

L’insufficienza della giustizia internazionale

Sembra opportuno, in conclusione, continuare a interrogarsi sulle «ragioni» di genocidi e democidi. Esse, come si è visto, non appartengono a un passato privo di legami con il presente. Non possono essere relegate oramai a un ambito di archeologia storica. Hanno piuttosto a che fare con la superfluità della vita umana rispetto agli obiettivi del potere che la domina. Potere esercitato da élites, per interessi di élites, e non come strumento collettivo per realizzare il bene comune. Il mondo contemporaneo, nonostante la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e quel processo di «giuridificazione» del sistema internazionale che ha portato, ad esempio, all’istituzione del Tribunale penale internazionale, è tuttora caratterizzato da uccisioni di massa e da sistematiche violazioni dei diritti umani. Talvolta, come osserva Portinaro, si verificano «situazioni spurie», con democidi e genocidi «striscianti e dissimulati» e con strategie volte a diluire la violenza nel tempo, in modo da non oltrepassare «la soglia dell’allerta internazionale». Le contromisure giuridiche internazionali si rivelano insufficienti, di fronte a realtà caratterizzate da profonde diseguaglianze, istituzioni antidemocratiche o solo formalmente democratiche, assuefazione alla violenza, nelle quali ancora oggi si mettono in atto pratiche più o meno esplicite per annientare gli indesiderati.

Dello stesso autore: Non solo a destra e non solo in Germania: l’eugenetica tra razzismo e biopolitica.

Bibliografia

R. Gellately, B. Kiernan (a cura di), Il secolo del genocidio, ed. orig. 2003, trad. it. Longanesi, Milano 2006.
G. Gozzini, Stato e sterminio, in «Passato e presente», n. 96, maggio-agosto 2016, pp. 151-162.
E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, ed. orig. 1994, trad. it. Rizzoli, Milano 1995.
N. Labanca, Massacri d’Oltremare: colonialismo e «Soluzione finale», in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, volume I, La crisi dell’Europa e lo sterminio degli ebrei, Utet Libreria, Torino 2005, pp. 97-129.
M. Mann, Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica, Egea, Milano 2005.
E. Traverso, Introduzione a Storia della Shoah, cit., volume I, pp. 3-13.
P.P. Portinaro, L’imperativo di uccidere, Laterza, Roma-Bari 2017.
J. Radford, D.E.H. Russell (edited by), Feminicide. The Politics of Woman Killing, Twayne, New York 1992.
R.J. Rummel, Statistics of Democide: Genocide and Mass Murder since 1900, Transaction Publishers, New Brunswick 1995.
T. Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, ed. orig. 2010, trad. it. Rizzoli, Milano 2011.
Id., Terra nera. L’Olocausto fra storia e presente, trad. it. Rizzoli, Milano 2015.

 

Giovanni Borgognone (Torino 1971) è professore associato di Storia delle dottrine politiche presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università degli Studi di Torino. Dopo diverse esperienze di insegnamento di storia e filosofia nella Scuola secondaria di secondo grado, si è specializzato in alcuni campi di ricerca della storia contemporanea, tra cui la storia degli Stati Uniti, la storia e la politica dell’Italia e dell’Europa contemporanee. Ha curato il quinto volume della Storia della Shoah (Utet, 2006) ed è autore di numerosi saggi e volumi, tra cui Come nasce una dittatura. L’Italia del delitto Matteotti (Laterza, 2012), Tea Party. La rivolta populista e la destra americana (con M. Mazzonis; Marsilio, 2012), Storia degli Stati Uniti. La democrazia americana dalla fondazione all’era globale (Feltrinelli, 2013), Tecnocrati del progresso. Il pensiero americano del Novecento tra capitalismo, liberalismo e democrazia (Utet, 2015). È, inoltre, autore di testi Pearson.