Fascismo e antisemitismo. Premesse e conseguenze delle leggi razziali

CULTURA STORICA

Nell'Europa degli anni venti e trenta del Novecento l’antisemitismo era un sentimento diffuso in ampi strati della società. Gli ebrei divennero i bersagli ideali per quella parte della popolazione maggiormente frustrata dagli eventi post-bellici. Questo riacutizzarsi dell’antisemitismo venne cavalcato dai movimenti reazionari e fascisti che si stavano affermando in Europa, primo fra tutti il nazismo in Germania. Il movimento fascista italiano non fece eccezione ed ebbe fin dalle sue origini una radicata componente antiebraica.

Roberto Roveda

L’antisemitismo

Nell'Europa degli anni venti e trenta del Novecento l’antisemitismo era un sentimento diffuso e accettato in ampi strati della società. Ad alimentare questo moderno sentimento antiebraico erano il retaggio del tradizionale antigiudaismo cristiano, il nuovo razzismo scientifico e il nazionalismo, il quale mirava a rendere le nazioni sempre più omogenee e identitarie dal punto di vista etnico-religioso. A peggiorare la situazione, per gli ebrei si aggiunse la dura situazione sociale ed economica in cui versavano gli stati del Vecchio Continente in conseguenza del primo conflitto mondiale e della grande crisi economica scoppiata nel 1929. Come in altre epoche difficili, gli ebrei divennero i bersagli ideali per quella parte della popolazione maggiormente provata e frustrata dagli eventi post-bellici. Questo riacutizzarsi dell’antisemitismo venne, infine, ampiamente cavalcato e fatto proprio dai movimenti reazionari e fascisti che si stavano affermando in parte dell’Europa, primo fra tutti il nazismo in Germania. Il movimento fascista italiano non fece eccezione ed ebbe fin dalle sue origini una radicata componente antisemita. Tale componente covò sotto le ceneri negli anni venti, tanto che non mancarono le adesioni al fascismo da parte di ebrei in una pacifica convivenza tra comunità ebraica italiana e regime. Si trattava però di una pace illusoria perché già all'inizio degli anni trenta Benito Mussolini cominciò ad allontanare gli ebrei dalle posizioni di rilievo all'interno dello Stato fascista, soprattutto se cadevano sotto la sua diretta dipendenza.

Il ruolo del razzismo

La situazione mutò decisamente in peggio per gli ebrei italiani con la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero italiano (1936). La svolta imperiale coincise con una campagna propagandistica per la diffusione di temi e stereotipi razzisti, una campagna diretta inizialmente contro le popolazioni africane, definite razza inferiore e da civilizzare. Si arrivò così all'attuazione di una vera e propria politica razziale con l’approvazione, nell'aprile del 1937, del primo decreto legge che vietava quelli che venivano definiti “incroci razziali” tra bianchi e neri e proibiva i matrimoni interazziali. Rapidamente il razzismo si intrecciò con l’antisemitismo e nel giro di pochi mesi si sviluppò una violenta campagna di stampa contro gli ebrei, accusati di essere i veri padroni della finanza internazionale e i fomentatori delle sanzioni economiche che avevano colpito l’Italia durante l’impresa etiopica1. Gli ebrei, intanto, cominciarono a essere descritti dai mezzi di informazione come un corpo separato all'interno della nazione italiana, un corpo infido e pericoloso. Queste campagne erano diretta espressione di Mussolini e del regime fascista e univano nuove motivazioni all'antisemitismo diffuso fin dalle origini nel movimento fascista. Pesavano, infatti, i nuovi miti imperiali della purezza della razza italica e la volontà sempre più decisa di sradicare ogni tipo di diversità e distinzione all'interno della società italiana. Di conseguenza, il regime mal sopportava l’autonomia mostrata dalla comunità ebraica che intervenne, per esempio, in favore degli ebrei tedeschi perseguitati dal nazismo. Minor peso in questa accentuazione delle politiche razziste e antisemite del fascismo ebbe il rafforzarsi del legame con la Germania hitleriana dato che Mussolini in quegli anni si mostrava ancora molto indipendente dall'alleato tedesco.

Alla propaganda, comunque, fecero ben presto seguito anche documenti ufficiali e istituzionali volti a sottolineare la distanza razziale che esisteva tra italiani ed ebrei. Il 14 luglio 1938 venne ultimato il documento teorico Il fascismo e i problemi della razza (o Manifesto degli scienziati razzisti) all'interno del quale si negava esplicitamente l’appartenenza degli ebrei alla razza italiana, definita di origine ariana e di civiltà ariana: «Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani»2.

Gli obiettivi della politica fascista contro gli ebrei

L’antisemitismo fascista trovò poi la sua definizione più completa il 6 ottobre del 1938 con la Dichiarazione della razza emanata dal Gran Consiglio del Fascismo in cui si affermava che «l’ebraismo mondiale […] è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i campi e che l’ebraismo estero o italiano fuoriuscito è stato in taluni periodi culminanti, come nel 1924-25 e durante la guerra etiopica, unanimemente ostile al fascismo. L’immigrazione di elementi stranieri accentuatasi fortemente dal 1933 in poi ha peggiorato lo stato d’animo degli ebrei italiani nei confronti del regime, non accettato sinceramente, poiché antitetico a quella che è la psicologia, la politica e l’internazionalismo d’Israele. Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei». Prima di questa dichiarazione, però, il regime si era già mosso con azioni concrete per affrontare quello che oramai apertamente era definito come il “problema ebraico”. Un problema risolvibile, secondo Mussolini, solo emanando una serie di leggi che estromettessero progressivamente gli ebrei da tutti gli ambiti della vita civile e sociale, così da spingerli ad abbandonare l’Italia. Si voleva quindi fare “terra bruciata” attorno alla comunità ebraica per isolarla ed espellerla, come già da alcuni anni stava accadendo in Germania. Nell'agosto del 1938 venne allora disposto un censimento della popolazione ebraica esistente in Italia e realizzato dalla neonata Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza), istituita dal Ministero dell’Interno. Il censimento rivelò che sul territorio nazionale vivevano 48 032 ebrei italiani e 10 380 ebrei stranieri, per un totale di poco più di 58 000 persone, cioè l’1 per mille della popolazione complessiva. Questi dati, poi costantemente monitorati di modo che le autorità di polizia sapessero sempre numero e residenza degli ebrei in Italia, servirono a focalizzare gli obiettivi della legislazione antiebraica che si voleva introdurre.

Una legislazione che aveva una chiara impostazione razzistica biologica perché definiva di “razza ebraica” chi era figlio di due genitori di razza ebraica, anche se ateo o di religione cristiana. Era ariano, viceversa, chi discendeva da due genitori di razza ariana indipendentemente dalla religione che professava. Chi era nato da un matrimonio misto poteva essere classificato come ebreo o no a seconda della religione e della nazionalità sua e dei genitori.

Le prime norme antiebraiche

Per il regime, quindi, gli ebrei non erano di razza italiana, erano antifascisti, erano censiti e definiti dal punto di vista razziale. Ora li si poteva colpire con una serie di leggi – chiamate comunemente “leggi razziali” – introdotte a partire dal settembre 1938 e volte a perseguitare i diritti degli ebrei così da renderli in pratica non-cittadini italiani. Materialmente il regime non dispose per gli ebrei una revoca generale della cittadinanza italiana. Li escluse de facto dalla nazione impedendo loro, per esempio, di far parte delle Forze Armate, in quell'epoca il simbolo stesso dell’appartenenza nazionale. Procedendo per gradi, però, i primi decreti legge del settembre 1938 colpirono gli stranieri di razza ebraica che si videro revocata la cittadinanza italiana, se ottenuta dopo il 1°gennaio 1919. Coloro che erano giunti in Italia dopo questa data avevano sei mesi di tempo per lasciare il paese. Allo stesso tempo venne stabilito l’allontanamento dalle scuole pubbliche degli studenti ebrei e l’espulsione da scuole e università di insegnanti e docenti ebrei.3 Le Comunità ebraiche dovettero quindi attrezzarsi rapidamente per organizzare scuole ebraiche in cui andarono a lavorare gli insegnanti e i docenti espulsi dalle istituzioni pubbliche.4 Vennero quindi vietati i libri di testo di autori di “razza ebraica”, anche se scritti in collaborazione con autori ariani, comprendendo in questo provvedimento tutti gli scrittori ebrei morti dopo il 1850. I testi di autori ebrei già pubblicati vennero ritirati dal commercio e tolti dalla consultazione nelle biblioteche. Venne cancellata la stampa ebraica e gli artisti ebrei (musicisti, cantanti, attori, registi ecc.) furono progressivamente esclusi da radio, cinema e teatri. Pittori e scultori non poterono più allestire mostre.

I diritti negati

Il 17 novembre 1938 venne emanato il decreto principale della legislazione antiebraica. Esso vietava i matrimoni misti, il possesso di aziende di rilievo per la difesa nazionale e con più di 99 dipendenti, il possesso di immobili e stabili superiori a determinate dimensioni e la possibilità di avere personale domestico non ebreo. Gli ebrei, inoltre, non poterono più prestare servizio nelle amministrazioni pubbliche civili e militari, una proibizione che progressivamente venne estesa anche alle attività e agli impieghi privati. Tra il 1938 e il 1942 furono revocate agli ebrei le licenze di lavoro che necessitavano di autorizzazione di polizia (come per il diffusissimo lavoro di venditore ambulante). Inoltre il Ministero delle Corporazioni ordinò ad aziende e uffici di collocamento di favorire sempre l’occupazione di lavoratori ariani. Nel giugno 1939, intanto, era stata disposta la cancellazione degli ebrei dagli albi professionali ed era stato stabilito che i professionisti di “razza ebraica” potessero esercitare la loro professione solo per altri ebrei. Inoltre la dicitura “di razza ebraica” comparve su tutti i documenti anagrafici, sulle pagelle, sui libretti di lavoro, ma non sui passaporti così da facilitare l’emigrazione degli ebrei. Migliaia di persone si ritrovarono di fatto escluse dalla vita della nazione, come ci racconta questa testimonianza dell’epoca:

«Io ebbi precluso l’esercizio della professione di avvocato, con la quale guadagnavo quanto occorreva per mantenere i numerosi familiari. Dei miei sette figli, la maggiore, laureata e sposata, aveva vinto un concorso d’insegnamento, ma la legge glielo precluse; al marito, impiegato al tribunale, e che si preparava agli esami per il passaggio alla Magistratura, fu licenziato con un’indennità ridicola. Altri due miei figli, laureati in scienze e in legge, furono posti nell'impossibilità di svolgere attività in impieghi pubblici e in grave difficoltà per trovare lavoro in aziende private. Gli altri miei figli erano ancora agli studi e furono cacciati dalle scuole pubbliche. Era loro consentito dare gli esami a fine anno e venivano ammessi a scrivere i temi degli esami scritti insieme agli altri; ma, dettati i temi, si richiedeva agli alunni ebrei di alzarsi e di uscire, perché non potevano restare nella classe con gli altri e dovevano recarsi, per lo svolgimento del tema, in un’aula separata. Agli esami orali dovevano presentarsi dopo tutti gli altri.»5

Le reazioni alle leggi antiebraiche

Tra il 1938 e il 1943 ogni ambito della vita venne colpito duramente. Furono introdotti divieti religiosi con la proibizione di celebrare le festività ebraiche e di eseguire la macellazione kosher.6 Venne negata la possibilità di frequentare stazioni balneari e di far parte di associazioni sportive dato che queste dovevano porsi come obiettivo solo il miglioramento fisico e morale della razza ariana. Si assistette a una vera e propria ghettizzazione da cui furono esclusi solo quegli ebrei che avevano ottenuto la cosiddetta “discriminazione” per particolari benemerenze acquisite (onorificenze di guerra, adesione al fascismo fin dalle origini ecc.). Una ghettizzazione a cui la maggior parte degli italiani non si oppose, come scrisse anche Primo Levi: «Da pochi mesi erano state proclamate le leggi razziali, e stavo diventando un isolato anch'io. I compagni cristiani erano gente civile, nessuno fra loro né fra i professori mi aveva indirizzato una parola o un gesto nemico, ma li sentivo allontanarsi, e, seguendo un comportamento antico, anch'io me ne allontanavo: ogni sguardo scambiato fra me e loro era accompagnato da un lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto. Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te? Lo stesso di sei mesi addietro, un tuo pari che non va a messa, o il giudeo…?».7

Nei fatti la società italiana si adeguò alle leggi razziali senza grandi proteste e defezioni, con prona e pronta adesione ai voleri del regime. I provvedimenti vennero spesso applicati con rigore da solerti funzionari e impiegati e prevalse l’indifferenza perché queste norme non colpivano i non-ebrei nelle loro abitudini e nei loro interessi. Anzi in molti casi eliminavano dalla scena potenziali concorrenti e rivali per ruoli pubblici e impieghi. Anche la Chiesa cattolica non si oppose con decisione alle leggi razziali e papa Pio XI si limitò a protestare per il divieto dei matrimoni misti, accettati dal diritto canonico e previsti dal Concordato del 1929.

Gli ebrei poterono contare solo sulle proprie forze e sulla solidarietà individuale di parenti e amici. Nonostante la durezza delle limitazioni imposte dal fascismo, però, i membri della Comunità ebraica continuarono a considerare le restrizioni come provvisorie e solo pochi decisero di emigrare. A incidere fu a volte la mancanza di mezzi economici e di contatti che rendessero più semplice l’emigrazione. Ancora di più contò, però, la volontà di molti ebrei di rimanere e di rifiutare l’espulsione da quella che consideravano la loro terra, come ci ha testimoniato sempre Primo Levi:

«Questo villaggio, o città, o regione, o nazione, è il mio, ci sono nato, ci dormono i miei avi. Ne parlo la lingua, ne ho adottato i costumi e la cultura; a questa cultura ho forse anche contribuito. Ne ho pagato i tributi, ne ho osservato le leggi. Ho combattuto le sue battaglie, senza curarmi se fossero giuste o ingiuste: ho messo a rischio la mia vita per i suoi confini, alcuni miei amici o parenti giacciono nei cimiteri di guerra, io stesso, in ossequio alla retorica corrente, mi sono dichiarato disposto a morire per la patria. Non la voglio né la posso lasciare: se morrò, morrò “in patria”, sarà il mio modo di morire “per la patria».8

Gli ebrei si sentivano italiani e consideravano l’Italia la loro patria. Una patria che li aveva traditi – e che li tradirà ancora di più con le deportazioni del 1943-45 – ma a cui non volevano rinunciare.

Appendici

1 Le sanzioni erano state decise dalla Società della Nazioni e rimasero in vigore dal 18 novembre 1935 al 4 luglio 1936.

2 Testo tratto dal paragrafo IX intitolato Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.

3 Solo agli studenti universitari già iscritti ai corsi fu consentito di portare a termine il ciclo di studi.

4 Persero la possibilità di insegnare e di fare ricerca grandi esponenti della cultura e della scienza italiana come i matematici Federigo Enriques e Tullio Levi-Civita, il biologo Giuseppe Levi, i fisici Enrico Fermi e Bruno Rossi, questi ultimi poi emigrati in America e divenuti grandi esponenti della fisica statunitense.

5 Enzo Levi, Memorie di una vita, 1889-1947, STEM, 1972, pp. 85-86.

6 Kosher è l’insieme di regole religiose che governano la nutrizione degli ebrei osservanti. La parola ebraica kasher o kosher significa “conforme alla legge”, “consentito”.

7 P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1975, p. 48.

8 P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, pp. 133-34.

Bibliografia

E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2006

M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2007

M. Avagliano e M. Palmieri, Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali, Baldini & Castoldi, Milano 2013

R. Calimani, Storia degli ebrei italiani. Vol. 3: Nel XIX e nel XX secolo, Mondadori, Milano 2015

 

Roberto Roveda è autore per Pearson del corso Noi dentro la storia e del manuale di Educazione civica Un futuro per tutti per la Scuola secondaria di primo grado. Val al catalogo per scoprire tutte le opere >>