Storia e memoria. Una premessa
Uno dei ricordi più significativi di quando ero piccola sono i giochi nel giardino della casa della nonna materna. Erano gli anni Ottanta del secolo scorso e si stava spesso in strada a giocare ma anche il giardino aveva le sue attrattive. Lì infatti c’era un arbusto che, in primavera, si riempiva di mazzetti di piccoli fiori bianchi. Era un viburno, ma io allora non ne conoscevo il nome né mi interessava saperlo: per me, era “l’albero della neve” e tale sarebbe rimasto, se non avessi avuto modo di incontrarlo nuovamente da adulta. Se scuotevo i rami quando il fiore cominciava a sfiorire, i suoi petali cadevano a terra e sembrava che nevicasse. Noi bambini ci lanciavamo sotto questa povera pianta a simulare una tempesta di neve, strattonandola furiosamente, mentre mia nonna ci gridava contro qualche improperio in dialetto, per farci smettere.
Vorrei partire da questo mio ricordo per introdurre un argomento a mio avviso molto interessante da affrontare in classe, quanto complesso e delicato: quello della memoria.
Se si domanda in una classe della scuola media cosa sia la memoria, molti studenti risponderanno che è qualcosa che ha a che vedere con il ricordo personale e le storie di famiglia, come nelle parole che avete letto sopra; altri diranno che è qualcosa di privato, a volte magari anche poco interessante e che non è il caso di raccontare a tutti. I ragazzi più grandi subito collegheranno il tema della memoria con la Giornata della memoria, forse inconsapevoli di fare un passaggio ulteriore: la memoria non è solo un fatto personale, ma anche collettivo e si intreccia con la Storia, che qui scrivo con l’iniziale maiuscola, intendendola proprio come la disciplina che taluni di noi insegnano.
Ecco allora che il piano della storia e quello della memoria si intersecano, come è normale che sia. Sta però a chi insegna non confondere i piani e rappresentarli in maniera chiara, per evitare che si faccia confusione e che la propria visione di un fatto, di un avvenimento o di un intero periodo storico sia interpretata come “la storia con la S maiuscola”. Ho scritto che negli anni Ottanta del Novecento si giocava spesso in strada. È un dato di fatto? Lo è per me, per i bambini cresciuti con me, in un paesino alle porte di Milano. Sono consapevole che in altri posti forse non era già più così. La mia testimonianza è una memoria, non è storia. Se uno storico o una storica dell’infanzia volesse avvalorare la mia affermazione, allora dovrebbe trovare dieci, cento o forse più testimonianze simili alla mia. Infatti, la pratica storiografica può fondarsi sulla memoria, ma non deve mai identificarsi con essa: la storia vuole ricostruire il passato attraverso fonti verificate e confrontate fra loro; la memoria è invece autoreferenziale e consiste nel ricordo che ci portiamo dentro, come singoli o come gruppi. E un insegnante non può e non deve dimenticare ciò, soprattutto quando si parla di Novecento e di “memorie conflittuali” (fascismo/resistenza; la guerra fredda; gli anni settanta, ecc.).
Autobiografie del Novecento
Chi scrive un’autobiografia, come è ovvio, racconta la sua vita, le sue memorie. Spesso si tratta di memorie contestualizzate in un particolare quadro storico e da cui possiamo trarre informazioni di carattere storico; tuttavia, di solito, quello che apprezziamo in un racconto autobiografico è proprio il valore dell’esperienza personale.
Nella maggior parte delle antologie adottate nella Scuola secondaria di primo grado sono presenti testi autobiografici e memorie di personaggi o di scrittori famosi: si va da Nelson Mandela a Richard Wright, da Margherita Hack a Sibilla Aleramo, da Susanna Agnelli a Emilio Lussu. Questi autori e queste autrici piacciono agli adulti come ai ragazzi, perché hanno qualcosa da dire a più generazioni: sono testimoni contro il razzismo perché lo hanno vissuto sulla propria pelle; parlano della difficoltà per le donne nell’emanciparsi, per seguire poi i propri sogni; sono testimoni delle guerre e della sofferenza da esse prodotta. Eppure, sono anche altro: sono la loro storia, fatta di relazioni, emozioni, paure, gioie quotidiane: ed è per questo che risultano così interessanti.
Lessico famigliare
Un romanzo i cui brani meritano di essere letti in classe è sicuramente Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, una delle voci femminili più note della letteratura italiana del Novecento. Come è noto, Ginzburg nel libro ricostruisce, con un tono ironico ma al contempo nostalgico, la storia sua e della sua famiglia a partire dal “lessico”, cioè dal linguaggio e dai modi di dire – talora dialettali, talora inventati – usati nella cerchia familiare. Da un lato, le pagine rappresentano un ritratto sociale della borghesia intellettuale della prima metà del Novecento, dall’altro la vivacità dell’ambiente familiare e la descrizione della forte personalità paterna provocano curiosità nel lettore, che si aspetterebbe atteggiamenti e comportamenti più sobri da parte degli appartenenti a quel ceto. Numerose sono infatti le descrizioni delle liti, alcune delle quali terminate con le botte fra fratelli oramai adulti e un padre che interviene lanciando schiaffi a destra e a manca, mentre le donne restano ai margini della scena, allibite e spaventate (Collerici in famiglia >>). Anche l’ira del padre contro i figli, colpevoli di non fare proprie le regole dell’educazione borghese, è un tema ricorrente, a partire dal famoso incipit del testo:
Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie!
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate potacci!
Sbrodeghezzi e potacci non esistono nel vocabolario della lingua italiana, proprio perché appartengono appunto a quel “lessico famigliare” che dà il titolo al libro. Del lessico famigliare fanno parte anche i passi d’opera recitati abitualmente ad alta voce dalla madre (come i versi de La figlia di Jorio, in parte fedeli all’originale, in parte inventati quando veniva meno la memoria), le canzoni popolari cantate in casa, i nomignoli affibbiati a parenti e ad amici, di cui riporto qualche passo fra i più divertenti:
[…] una ragazzina di nome Olga, amica di mia sorella, e che io chiamavo “Olga viva”, per distinguerla da una mia bambola Olga […]
Avevo avuto, nella mia adolescenza, tre amiche. Le mie amiche erano chiamate in famiglia “le squinzie”. “Squinzie”, significava nel linguaggio di mia madre, ragazzine smorfiose e vestite di fronzoli.
Le sorelle del Barbison [uno zio materno] erano chiamate “le Beate”, essendo molto bigotte.
La cornice delle vicende famigliari di Natalia Ginzburg copre un arco di tempo vasto: dal primo dopoguerra, passando per il fascismo e la Seconda guerra mondiale per approdare nel secondo dopoguerra. I ricordi si mescolano e si sovrappongono. L’ironia lascia il posto al dramma personale. E il dramma personale ha a che vedere con le vicende storiche: Natalia durante la Seconda guerra mondiale è confinata in Abruzzo col marito e i figli ma, dopo l’armistizio, decide di tornare a Roma per raggiungere il marito Leone che nel frattempo è divenuto uno degli animatori della Resistenza nella capitale. La speranza di un periodo felice che sta per cominciare viene tuttavia spezzata dalla morte del marito:
Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice. […] Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori casa. Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo, e non lo rividi mai più.