Libri in classe. Neorealismo
LIBRI IN CLASSE
Un percorso storico-letterario attraverso alcune opere in prosa contemporanee alla nascita della Repubblica, a rappresentare i caratteri, le difficoltà, ma anche la forza e la tenacia, che hanno accompagnato la rinascita politica e sociale del nostro paese dopo la guerra.
Si propone qui un percorso nel quale sono state scelte alcune opere significative, ma non quelle generalmente più note, pubblicate nell’arco temporale che dalla fine del conflitto si spinge fino al 1951. Il motivo di questo limite è duplice: nel 1951 infatti l’inchiesta radiofonica di Carlo Bo (Inchiesta sul neorealismo) aveva di fatto posto il sigillo sulla stagione letteraria neorealista, che avrebbe lasciato a poco a poco spazio ad altre narrazioni maggiormente orientate sul tema politico e ideologico e sul racconto di fabbrica, dando voce al neosperimentalismo e alla neoavanguardia, come al Pasolini di Ragazzi di vita, 1955 e delle Ceneri di Gramsci, 1957; al Gadda di Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, 1957; al Sanguineti di Laborintus, 1956. L’anno successivo, poi, veniva pubblicata la raccolta di racconti I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio: un libro che cambiò il modo di sentire e di narrare la realtà partigiana adottando un punto di vista distaccato e antieroico, mutando i paradigmi narrativi dell’epopea della Liberazione. In questo percorso, per ogni opera scelta viene data una sintesi della trama e un passo indicativo che esprime o dipinge la realtà che gli scrittori avevano davanti ai loro occhi.
Vittorini e la spinta verso una nuova cultura
Nel periodo convulso e tragico che andò dal crollo del fascismo alla fine della Seconda guerra mondiale, vi fu un progressivo recupero di una condizione di libertà di espressione che si concretizzò in feconde e prolungate discussioni tanto in ambito politico quanto in quello culturale. Gli intellettuali e gli uomini di lettere vi contribuirono con fervore, interrogandosi sul ruolo della letteratura e dello scrittore in una società rinnovata e libera. Una sintesi emblematica di queste riflessioni venne data da Elio Vittorini nell’articolo con il quale il 19 settembre 1945 apriva il primo numero della sua nuova rivista, il “Politecnico”, intitolato non a caso Una nuova cultura: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini». In questo modo, lo scrittore richiamava la necessità di rifiutare l’azione evasiva e consolatoria della cultura per costruirne una “nuova” che esorcizzasse le sofferenze e vincesse lo sfruttamento e il bisogno, occupandosi delle necessità reali dell’uomo e non esclusivamente di problemi ideali (perché «occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’‘anima», continuava Vittorini). Veniva dunque sottolineata l’urgenza di perseguire una cultura capace di orientarsi e nei problemi materiali degli uomini e di fare di questi il polo irraggiante del discorso, anche in sede creativa e letteraria.
Il neorealismo come necessità di rappresentazione della realtà italiana
In questo contesto - mentre venivano pubblicati da Einaudi, e ampiamente meditati, i sei volumi dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, in particolare quello dedicato a Letteratura e vita nazionale - tutte le arti erano chiamate a dare il loro contributo, che si concretizzò in quel vasto insieme di idee noto con il nome di “neorealismo”. Non si trattò di un movimento organico e fedele a un programma prestabilito, ma assunse forme diversificate ed ebbe componenti ibride e varie. Il termine era stato adottato già negli anni trenta per definire i romanzi di Alberto Moravia (Gli indifferenti, 1929) e di Corrado Alvaro (Gente in Aspromonte, 1930), ma si è soliti identificare nell’immediato dopoguerra l’inizio vero e proprio della stagione del neorealismo. Una stagione caratterizzata da un’arte “impegnata” nel bisogno di rappresentare l’Italia “reale”, ossia un paese che era emerso lacerato dal conflitto ma che aveva al contempo una profonda fiducia nelle proprie possibilità di rinascita. Scrisse correttamente Italo Calvino, uno dei maggiori protagonisti di quella stagione, che «il neorealismo non fu una scuola. [...] Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino ad allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra - o che si supponevano sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria non ci sarebbe stato “neorealismo”» (Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno).
I racconti e i romanzi che ne derivarono furono quindi il frutto di un bisogno di espressione e di racconto che chi aveva vissuto la guerra e la guerra civile desiderava comunicare. Essi si svilupparono secondo più direttrici: la narrazione della guerra partigiana (Italo Calvino, Angelo Del Boca, Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Renata Viganò, Alberto Vigevani, Elio Vittorini), la testimonianza dei campi di sterminio (Aldo Bizzarri, Primo Levi, Giuliana Tedeschi, Alba Valech), il difficile ritorno in patria (Gino De Sanctis, Oreste Del Buono), la divaricazione fra le tante “Italie” (Corrado Alvaro, Carlo Bernari, Francesco Jovine, Carlo Levi, Vasco Pratolini, Domenico Rea; e ancora Calvino e Pavese). Mentre i narratori scrivevano le loro storie, la loro memoria personale mirava anche a trasformarsi in memoria storica, ovvero a costruire una memoria collettiva attraverso la creazione di una narrativa sulla storia appena passata e vissuta dagli italiani.
Un neorealismo, tanti “neorealismi”
Il neorealismo costituì un momento di feconda elaborazione che sfociò in una importante produzione letteraria. Già all’inizio degli anni Cinquanta, tuttavia, la prima e forse le più significativa fase della stagione neorealistica sembra chiudersi. Sicuramente a questo fatto contribuirono eventi oggettivi, come le elezioni del 18 aprile 1948, che consegnarono la maggioranza assoluta in parlamento alla Democrazia cristiana di De Gasperi, e che vennero sentite come l’emblema dell’esaurirsi della spinta unitaria antifascista che aveva caratterizzato la politica di collaborazione fra le forze politiche, collaborazione di cui il neorealismo stesso si era nutrito. Ma l’affievolimento della vena iniziale era dovuta anche al fatto che gli scrittori di maggior talento come Pavese o Calvino e soprattutto il Fenoglio dei Ventitré giorni della città di Alba (1952) avevano imboccato strade autonome e personali nell’affrontare l’epopea della Liberazione e, ancora di più, nel riflettere sulle implicazioni sociali e psicologiche del ritorno alla vita “normale”.
Gli storici della letteratura non sono però concordi sulla periodizzazione da dare al neorealismo, proprio a ragione della complessità e della varietà di questo fenomeno. In anni recenti Romano Luperini ha proposto una triplice articolazione: un realismo politico coerente con il nuovo realismo degli anni trenta; un realismo mitico-simbolico ispirato alle vicende belliche (1940-1948); un realismo socialista, sulla spinta della politica di partito (1949 e il 1955). È certo che la poetica del neorealismo dovette scontrarsi con temi sempre nuovi sollevati da una società dinamica ed in rapida evoluzione, fatto che lo spinse al progressivo indebolimento a favore di poetiche nuove che i letterati sviluppavano via via, stimolati dal repentino cambiamento della realtà, in coerenza con la loro presenza nella società, nel mondo dell’editoria, dell’insegnamento e dell’industria.