Non piangere non ridere non giocare
Autore: Vanna Cercenà
Editore: Lapis, 2014
Pagine: 138
Il libro
Il romanzo di Vanna Cercenà, autrice di romanzi per bambini e ragazzi, che ha a lungo lavorato nel mondo della scuola, racconta le avventure di Teresa, una bambina di dieci anni emigrata in Svizzera da Pian del Melo, in provincia di Livorno, per stare con la madre che lavora come operaia nel paese d’Oltralpe. La nonna, che ha accudito fino a quel momento la nipotina, è oramai troppo anziana per continuare ad occuparsene e Teresa è costretta a lasciare il paese natale per cominciare una nuova vita all’estero. Arrivata nella nuova casa, però, la madre la avverte subito che la sua vita non sarà affatto come quella precedente: la protagonista infatti non potrà più frequentare la scuola e dovrà passare lunghe ore da sola, senza fare alcun tipo di rumore e senza neppure uscire di giorno per andare al bagno, che si trova fuori dall’appartamento ed è comune a più famiglie, perché la sua presenza non dovrà essere notata da nessuno. Comincia così per Teresa una nuova esistenza fatta di solitudine e privazioni, che verranno alleviate solo dall’incontro con un gatto e, successivamente, con il suo proprietario, che scenderanno nella stanza della bambina uno alla volta, passando per il lucernario. E solo grazie a un atto di disobbedienza alla madre, per seguire il gatto Poppins e il suo padrone Peter, Teresa troverà un po’ di conforto dalla desolazione del piccolo appartamento e dalla noia quotidiana.
La storia, che è frutto dell’invenzione dell’autrice, si basa tuttavia su solide fondamenta storiche ed è ambientata negli anni settanta quando, come racconta Cercenà stessa, «le leggi svizzere erano molto restrittive con i lavoratori stranieri. Ai cosiddetti stagionali […] non era consentito portarsi dietro la famiglia. Quindi l’immigrato o si doveva separare dai figli per lunghissimi periodi oppure, conducendoli con sé, si trovava costretto a farli vivere nascosti in casa come clandestini col terrore di essere scoperti e mandati via».
Scheda didattica
Il romanzo ha l’obiettivo di fare riflettere il giovane lettore e la giovane lettrice sul tema delle migrazioni, partendo da un contesto storico ben preciso, quello della Svizzera degli anni settanta. Il lessico semplice e la brevità del racconto lo rendono adatto anche alle ultime classi della scuola primaria e certamente è una lettura agile da affrontare nella classe prima della Secondaria di primo grado.
Nel libro, gli italiani, in cerca di lavoro, sono i migranti e l’Italia è il paese dalle cui estreme periferie si fugge: la prospettiva odierna viene ribaltata, poiché il libro racconta di quando “i migranti eravamo noi”. Chi si avvicina alla storia prova empatia per le vicende della piccola Teresa e soffre per le ingiustizie che la protagonista è costretta a subire: la bambina è in una condizione di clandestinità, motivo per cui non può uscire, non può ascoltare la musica, se non a un volume molto basso, non può frequentare altri bambini e si ritrova quasi costretta a vivere come in carcere. Immedesimandosi nella storia della ragazzina “dalle trecce bionde”, lo studente può provare a riflettere su cosa significhi lasciare la propria terra per andare a vivere in un paese straniero, di cui non si conosce la lingua (nel romanzo quasi tutti parlano il tedesco) e dove non si potrebbe risiedere, poiché le leggi non lo consentono.
A integrazione della lettura, il docente potrà nel corso dell’anno proporre ai propri studenti di ricercare dati, notizie, informazioni sulle migrazioni degli italiani, sia ampliando il cerchio e organizzando un lavoro sulle migrazioni da fine Ottocento ai giorni nostri, sia limitandosi a richiedere notizie sulla migrazione in Svizzera dal dopoguerra ai giorni nostri, attivando in ogni caso competenze di ambiti diversi (nell’ambito linguistico con la lettura del romanzo, in quello storico con la comprensione di un determinato periodo e in quello civico con la riflessione sulle migrazioni e i diritti dei bambini).
A cura di Elena De Marchi
L’età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017
Autori: Tommaso Detti, Giovanni Gozzini
Editore: Laterza, 2018
Pagine: 228
Nelle dichiarate ed esplicite intenzioni introduttive di Tommaso Detti e Giovanni Gozzini, il libro vuol essere un’utile guida per cercare di farci comprendere il nostro mondo in continuo movimento sempre più globale, caotico e complesso. L’assunto centrale – innovativo - del libro, strutturato in sei capitoli, individua nel quinquennio 1968-1973 il periodo di volta che ha accelerato i movimenti globali di merci, capitali, dati e persone. Assistiamo infatti in quegli anni, segnati dallo shock petrolifero, all’affermarsi del ruolo sempre più predominante e autonomo della finanza internazionale (importanza di petrodollari e degli eurodollari delle multinazionali) che s’impone sull'economia reale sfuggendo al controllo dei tradizionali stati-nazione e spostando progressivamente il baricentro produttivo verso Oriente. Lo sviluppo della moderna rete informatica, che permette d’effettuare operazioni finanziare e commerciali (e-commerce) in tempo reale e di creare un nuovo tipo di relazioni sociali (social network), non ha fatto altro che sviluppare enormemente questi processi. La globalizzazione, ricordano i due autori, non è un mostro indomabile né il frutto di un complotto neoliberista, ma un processo storico irreversibile che ha attraversato varie fasi e periodizzazioni storiche, a partire dalla prima rivoluzione industriale, e che necessita di una governance sicura per bilanciare costi e iniquità. L’affermarsi della globalizzazione è stata finora accompagnata da una maggiore frammentazione e instabilità politica. Ad oggi la politica su questi temi ha fornito risposte largamente insufficienti e mostrato gravi carenze gestionali, oscillando tra inadeguate e conflittuali istituzioni sovranazionali e pericolose tentazioni “sovraniste” e protezioniste. La cosiddetta morte delle distanze ha praticamente eliminato quelle fisiche, ma ingigantito quelle socio-economiche generando nuove e gravi diseguaglianze di redditi, ricchezza, istruzione, salute, ben evidenziati nelle cifre e nei grafici illustrati nel libro. Il mondo attuale ha più che mai bisogno, per non precipitare nel caos e nelle guerre, di una politica internazionale e cooperativa a favore degli interessi della maggioranza delle persone e non più dei singoli gruppi di potere. È appunto questa preoccupante discrasia tra i velocissimi tempi e gli ampi spazi della globalizzazione, da un lato, e le lentezze e chiusure dei governi, dall’altro, l’inquietante fantasma che aleggia nel testo e sulle nostre vite.
A cura di Lino Valentini
1968. Un anno spartiacque
Autore: Marcello Flores, Giovanni Gozzini
Editore: Il Mulino, 2018
Pagine: 280
Cosa accomunò tra loro le proteste dei giovani di Parigi, New York, Algeri, Praga, Pechino, Il Cairo e Buenos Aires? Perché per la prima volta nella storia dell’umanità ci fu una specie di simultaneo contagio agitativo? Quali ragioni causarono e produssero una mobilitazione globale di soggetti sociali lontani e diversi tra loro? Il libro di Flores e Gozzini cerca di rispondere, in maniera critica e problematica, a tutte queste domande. Secondo gli autori, apprezzati storici di valore internazionale, la risposta non va trovata né nei media che furono solo un importante strumento che favorì la propagazione dei miti e delle icone rivoluzionare in mondovisione, né nel fenomeno della baby boom generation che fu, in diversi paesi, con la sua dura critica alla società dei padri la condizione necessaria ma non sufficiente per spiegare la mobilitazione mondiale. Fu l’aumento degli studenti universitari su scala planetaria transnazionale (la cosiddetta università di massa) con le connesse nuove aspettative e aspirazioni della futura classe dirigente, il reale fattore unificante. L’accesso allargato all’istruzione superiore portò con sé una volontà di cambiamento che produsse originali e informali forme di mobilitazione politica, capaci di superare i tradizionali sindacati e partiti, segnando una significativa frattura con il passato. Seguendo questa lettura interpretativa, il 1968 diventa una data spartiacque nella storia della guerra fredda e ne indica sia l’acme che l’inizio della successiva fase di distensione. Infatti Flores e Gozzini non si limitano a indagare, come molti altri studiosi, le complesse dialettiche individuo/collettività, libertà/autoritarismo, pacifismo/minaccia atomica, narcisismo/impegno politico che entrarono in gioco in quegli anni, ma sono attenti a contestualizzare gli avvenimenti secondo logiche di processo non lineare di lungo periodo, fondamentali per comprendere la storia mondiale contemporanea. Vengono così studiate le diverse e opposte reazioni al movimento del Sessantotto nei paesi comunisti (Unione sovietica e Cina), le agitazioni studentesche nel mondo arabo contro i regimi militari e nazionalisti e le influenze di mentalità e comportamenti nella realtà contemporanea, dall’informatica ai diritti umani, dalla condizione femminile al terrorismo. Il Sessantotto, usando un’immagine della fisica quantistica, fu un battito d’ali il cui effetto farfalla influenzò, e sta influenzando, più o meno consapevolmente, l’intera seconda metà del Novecento e il mondo attuale.
A cura di Lino Valentini
Il caso Moro. La battaglia persa di una guerra vinta
Autore: Gianni Di Oliva
Editore: Edizioni del Capricorno, 2018
Pagine: 168
Chiariamolo subito: nel presente saggio non si troveranno “verità inedite”, in quanto il fine è propriamente didattico-divulgativo. L’autore, Gianni Di Oliva, ex preside del liceo Massimo D’Azeglio di Torino, scosso infatti dalla completa estraneità dei propri studenti alle commemorazioni per il 35° anniversario dall’assassinio del giornalista Carlo Casalegno, alle quali erano stati inviati a partecipare, scrive questo libro sul caso Moro, certo che i 40 anni di distanza rendano la vicenda ormai parte della Storia.
Gli anni di piombo richiedono un impegno tanto più necessario in un Paese in cui, siccome “si ricordano i nomi dei carnefici mentre si dimenticano completamente quelli delle vittime, si entra in un corto-circuito della memoria collettiva”. Per rivolgersi a chi, per ragioni anagrafiche, ignora tutto di quell’“attacco al cuore dello Stato”, l’autore sceglie una forma molto “connessa”: il libro è denso di rimandi e schede sull’attualità, di foto delle vittime delle Brigate Rosse, insieme a molte belle immagini del volto privato e familiare di Aldo Moro, oltre che della sua figura politica.
Paradigmatico il caso del post comparso sulla pagina Facebook della brigatista Barbara Balzerani: “Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?”. L’autore le risponde attraverso le parole di altri ex terroristi, che condannano il commento di pessimo gusto della Balzerani, insieme alla sua appartenenza a “quell’assurda setta chiusa delle BR”.
La ricca galleria fotografica dà spessore al volto privato di Moro, ai suoi affetti privati e alle amicizie pubbliche, contribuendo inoltre a fare chiarezza su tante frasi o slogan attribuiti allo statista, tra cui il famoso ossimoro delle “convergenze parallele”. Di particolare interesse è lo snodo della fine degli anni Sessanta, in una presa di posizione sempre più aperta al dialogo. Di contro alla “strategia della tensione”, Moro intende infatti adottare una “strategia dell’attenzione” nei confronti delle opposizioni, instaurando un dialogo con il Partito Comunista. Il suo contributo è altrettanto rilevante in politica estera: Moro intende favorire l’allentamento delle tensioni tra le due superpotenze e il passaggio dalla guerra fredda alla “coesistenza pacifica”.
“Tempi nuovi – scrive lo statista democristiano – si annunciano in fretta come non mai. Siamo ad una svolta della storia e dobbiamo preparare bene i binari, altrimenti saremo travolti”. La sua strategia dell’attenzione prosegue durante i primi anni Settanta, suscitando però l’aperta ostilità dei presidenti americani Ford, poi Nixon, e del segretario di Stato Henry Kissinger. Finché, nel 1978, Moro è stato “travolto dalla storia”.
A cura di Paola Ducato
Che cosa resta del ‘68
Autore: Paolo Pombeni
Editore: Il Mulino, 2018
Pagine: 128
Cos’è stato davvero il Sessantotto? Laboratorio giovanile delle idee globalizzate o fatale impresa dell’utopia? Utile lotta politica o pars destruens incapace però di proporre? Paolo Pombeni, professore emerito presso l’Università di Bologna, ne dà questa definizione nelle prime pagine: «Il ’68 fu molte cose ma fu, essenzialmente, un’operazione intellettuale». Il bilancio del movimento anti-sistema per eccellenza passa quindi in rassegna diversi ambiti della società evidenziandone il momento di rottura con il passato: la scuola, la questione femminile, la Chiesa, la politica, il mondo del lavoro, la giustizia sociale.
La questione di genere è uno dei punti cruciali dell’anno-crocevia. Nonostante la grande liberalizzazione già avvenuta nei costumi sessuali, il movimento rivendicava per le sempre più numerose militanti politiche e sindacali un nuovo ruolo sociale e la redistribuzione di diritti. Sia pure indirettamente, la promozione della tutela dei diritti per le lavoratrici nel corso degli anni Settanta arriverà dal Sessantotto.
È però sul versante religioso che lo “spirito del ’68” realizza l’esito più positivo: la nuova temperie culturale viene infatti prontamente intercettata dalle correnti ecclesiali più innovative, a lungo compresse e poi canalizzate nel Concilio Vaticano II (1962-65), in anticipo rispetto alla data del 1968. Le spinte riformatrici convergenti ebbero un ruolo propulsivo forte e di lunga durata, modificando in profondità la Chiesa-istituzione, il ruolo stesso del papato e delle sue forme di comunicazione.
L’utopia dell’immaginazione al potere e della palingenesi politica sono viceversa, secondo l’autore, il punto particolarmente debole della vertigine ribellista. Il “tutto e subito”, la dichiarazione “sii realista, chiedi l’impossibile” ha, di fatto, distrutto lo spirito riformista, che esige la paziente laboriosità del costruire. Priva ormai di spinte riformatrici, la ventata rivoluzionaria del decennio successivo sarebbe passata lasciando ai vertici dei partiti i rampolli di tante dinastie politiche. L’autore indica qui come la contestazione radicale del “merito” e delle “regole” abbia in realtà totalmente rovesciato il positivo intento originario della “promozione di tutti”, portando verso una società anti-meritocratica e individualista.
Il bilancio complessivo non è positivo: alla fine, è rimasta irrisolta la tensione tra realtà e utopia, tra idealità e ragione e, soprattutto, tra pars destruens e pars construens. A mezzo secolo di distanza, la controversa eredità del Sessantotto è ancora da raccogliere. Utopisti costruttivi cercansi.
A cura di Paola Ducato
Omissis 01. La vera storia di Rosa Amato. Camorrista per vendetta, pentita per amore
Autore: Fabrizio Capecelatro
Editore: Tralerighe, 2018
Pagine: 152
Frantumare l’omertoso silenzio che accresce il potere camorristico e dare voce alla verità capace di scuotere i cuori e le coscienze sono gli obiettivi primari di Omissis 01. La vera storia di Rosa Amato. Camorrista per vendetta, pentita per amore, scritto da Fabrizio Capecelatro, giovane giornalista d’origini napoletane. Il libro, rielaborazione del diario redatto in carcere da Rossella detta Rosa Amato, oggi collaboratrice di giustizia, ne narra la vita doppia e lacerata. Cresciuta serenamente in una benestante famiglia di Santa Maria Capua Vetere, improvvisamente il 19 marzo del 1999, per lei tutto cambia. Il giovanissimo fratello Carlo viene accoltellato a morte durante una banale rissa in una discoteca del suo paese, da uno scagnozzo al soldo dello spietato clan camorristico dei Casalesi. Ucciso nel silenzio e dal silenzio che ritarda i soccorsi, inquina irrimediabilmente le prove e congela le indagini. Da quel momento, nulla sarà mai più come prima e nessuno dei protagonisti rimarrà lo stesso. Per cieca vendetta contro i Casalesi la famiglia Amato si fa criminale: estorsioni, usura e gioco d’azzardo. La giovane ragazza, che sogna di scrivere e diventare avvocato, si trasforma di colpo in un duro e implacabile boss.
Dieci anni dopo, il 29 luglio 2009, la seconda svolta: insieme alla sua famiglia, Rosa viene arrestata e imprigionata: arrivano i primi lunghi e sofferti quarantacinque giorni di carcere, segnati in special modo dall’angosciosa frattura con la neonata figlia. Poi la libertà condizionata e di nuovo l’incarcerazione, di penitenziario in penitenziario, tra scioperi della fame e voglia di farla finita, in attesa della sentenza. Tra solitudini e tormenti, Rosa medita e matura la decisione di collaborare, spinta dall’insostenibile senso di colpa di far soffrire la sua bambina e dal non più eludibile richiamo di giustizia proveniente dal fondo della sua coscienza. È un nuovo Natale che riscatta anni bui e criminali e dà speranza a chi desidera squarciare quel muro «d’omertà che uccide più delle pistole».
A cura di Lino Valentini
Da Assisi a Barbiana. Il sentiero di don Milani
Autore: Maria Rosaria Sorce
Editore: Morlacchi, 2016
Pagine: 312
“Spesso si pensa a don Lorenzo Milani come uomo, come educatore, come maestro, come grande pedagogista, ma don Lorenzo fu innanzitutto prete, sempre, sempre obbediente alla Chiesa e mai, mai ha detto una sola parola contro, rimanendole sempre fedele; prima di tutto era prete e voleva attuare il Vangelo alla lettera e null’altro. Da qui sono partite tutte le sue conseguenze alla lettera... ma lui adorava solo il Vangelo alla lettera”. Per Maria Rosaria Sorce l’avvio della ricerca del “vero” don Milani è partito da qui, dalla dichiarazione fatta da Giancarlo Carotti, uno dei primi sei alunni del grande sacerdote nella scuola di Barbiana. A cinquant’anni di distanza dalla scomparsa di don Milani, avvenuta il 26 giugno 1967, l’autrice presenta il risultato del suo viaggio a ritroso alle origini di questa rivoluzionaria esperienza educativa in nome del “Vangelo alla lettera”.
Il 3 maggio 2008, insieme ai compagni di corso e ai seminaristi dell’Istituto Teologico di Assisi, Sorce giungeva nel luogo che don Lorenzo aveva abbracciato per poter adempiere fino in fondo alla propria chiamata vocazionale. La frase “da lì è partito tutto”, testimonianza appassionata del suo antico alunno, è la chiave interpretativa di tutto: un grande personaggio, la sua vocazione religiosa, la sua storia su cui moltissimo è stato scritto e interpretato, l’esperienza ecclesiale e la rivoluzione educativa realizzata in quel piccolo borgo dell’Appennino toscano, all’epoca completamente marginale e abitato dagli “ultimi”. Il grande educatore fiorentino era talmente fedele alla sua Chiesa da chiamarla “mia moglie”, come raccontava don Raffaele Bensi, la guida spirituale cui il giovane Lorenzo deve il discernimento definitivo della sua vocazione.
Per il giovane rampollo della famiglia Milani, infatti, tutto iniziò in maniera inaspettata il 4 giugno 1943. La persona che agisce positivamente nella sua svolta spirituale è appunto don Raffaele. Il giorno in cui Lorenzo si rivolge a lui, don Raffaele non ha molto tempo, deve andare a officiare il funerale di un giovane sacerdote. Quando arrivarono di fronte al capezzale del giovane don Dario Rossi, Lorenzo disse semplicemente: “Se permette, io prenderò il suo posto”. Effettivamente, cinque mesi dopo sarebbe entrato in seminario; e quattro anni dopo, il 15 luglio 1947, sarebbe stato ordinato prete.
Su questo fondamento poggia la sua intera esistenza e l’opera inarrestabile che l’ha animato. Per questa ragione, la dimensione “laica” della sua opera non può essere separata da quella religiosa. Questa vocazione l’aveva animato fin dalle origini della sua attività pastorale. A San Donato da Calenzano, periferia operaia fiorentina, il giovane sacerdote organizza una scuola serale per adulti di cui si occupa in prima persona. L’avrebbe continuata con passione, se possibile, ancora maggiore, a Barbiana.
“La mia è una parrocchia di montagna – disse in un’intervista televisiva. – Quando c’arrivai c’era una scuola con una sola aula. Quando uscivano dalla quinta elementare i ragazzi erano semianalfabeti, andavano a lavorare, timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile oltreché religiosa”. Nonostante provenisse da una famiglia colta dell’élite economico-sociale, don Lorenzo affermava che la vera dignità consisteva nel trasmettere contenuti validi in una forma comprensibile per tutti: “Io non misuro le parole e non calcolo molto quello che mi conviene, ma cerco di ottenere la fiducia dei ragazzi e del popolo, e di educare gli uni e gli altri a fare altrettanto”. Tutto questo per “dare parole alla Parola”.
La ricostruzione della effettiva realtà di don Milani è contestualizzata in questo volume nella ricostruzione della storia italiana del Novecento, segnatamente quella del secondo dopoguerra. Sono gli anni del boom, quando diventa abissale la distanza tra sviluppo e sottosviluppo, tra inclusi ed esclusi dai diritti fondamentali – tra cui l’accesso all’istruzione.
In quel paesino quasi inaccessibile, luogo dell’“esilio”, don Milani intendeva compiere la propria missione di “affiancare e affrancare i poveri”. In quel luogo impostogli come sede dopo l’esperienza di San Donato, avrebbe dovuto affrontare l’emarginazione, la solitudine e l’incomprensione, che furono la grande prova della sua vita. Dal superamento del “deserto” con la sua profonda libertà interiore arrivò a cogliere e a comprendere il grande “dono” di Barbiana.
Non meno importante è la chiarificazione dei rapporti tra Stato e Chiesa nel corso del Novecento, il contesto della nascita del personaggio, della sua formazione seminariale, di impegno ecclesiale e di non facile dialogo con le gerarchie ecclesiastiche.
Perché “da Assisi a Barbiana”? Don Milani, che si spende per i ragazzi di Barbiana, ultimi ma “elettissimi di Dio” che lui deve riscattare, richiama san Francesco non solo per la scelta di povertà ma soprattutto per la purezza di cuore e di intenzioni. Come è “francescano” incarnare la povertà del Cristo attraverso l’abbraccio alla povertà del proprio tempo, così sa di francescano la volontà di Lorenzo di desiderare la povertà estrema fin dal momento dell’ingresso in seminario. Se la vita di Francesco è incarnazione del suo discorso sulla “perfetta letizia”, don Lorenzo dimostra di accogliere a sua volta lo spirito del francescanesimo accettando di obbedire alla Chiesa, che “amò sino all’annientamento del suo cuore, a un martirio incruento vissuto in una maestosa dignità, virile nella fede e nell’obbedienza”.
Ad accomunare le due figure c’è anche la radicalità della conversione e ciò che entrambi hanno scelto di abbandonare; tanto più don Milani, come sottolinea l’autrice, oltre alla rinuncia dell’agiatezza ha scelto di spogliarsi della ricchezza culturale familiare e propria, per donarla ai suoi “ultimi” di Barbiana.
“Un uomo trasparente e duro come un diamante” disse di lui don Raffaele Bensi. La visita di Papa Francesco a Barbiana nel giugno 2017 ha onorato – da parte della massima autorità cattolica – la memoria di un grande educatore, il cui messaggio risplende oggi come cinquant’anni fa: “Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità, e quindi neanche libertà e giustizia”.
Queste parole, come ha sottolineato Maria Rosaria Sorce, sono attuali e urgenti oggi per la piena umanizzazione di ogni persona. Attraverso la parola c’è la strada verso la cittadinanza e la crescita di una coscienza libera.
La Chiesa deve moltissimo all’opera pastorale di don Milani, ma gli deve moltissimo anche la scuola italiana: la scrittura collettiva, le attività laboratoriali, l’apprendimento derivante da un contesto significativo, l’inclusione degli alunni con esigenze educative speciali, dobbiamo tutto all’attività profetica sviluppatasi nella “parrocchia di montagna” di Barbiana.
A cura di Paola Ducato
Fotografie e fotografi di Perugia, 1850-1915
Autore: Marco Trinei
Editore: Futura edizioni, 2016
Pagine: 312
L’ottica del libro di Marco Trinei, Fotografie e fotografi di Perugia, 1850-1915 è subito precisata: si tratta del percorso storico della fotografia a Perugia, e non viceversa. Ossia, non la storia cittadina letta attraverso fotografie dʼantan, bensì le immagini come le vere protagoniste.
In quei 65 anni di storia la regione Umbria e il suo futuro capoluogo cambiano radicalmente pelle, da ex-territorio papalino all’annessione al neonato Stato italiano. Al tempo stesso, sono decenni cruciali per una tecnica pionieristica quali le “istantanee sulla realtà”: dai primi fotografi professionisti fiorentini e romani alla nascita dei primi studi perugini; dalla prima ritrattistica d’élite alla nascente massificazione alla vigilia della Grande Guerra; dalla città bella ma silenziosa alle prime “pubblicizzazioni” di Perugia sulle cartoline postali; dalla bellezza arcaica del verde che avvolge l’abitato agli albori della motorizzazione pubblica, con foto che ritraggono i primi piani di gruppi sorridenti con gli autobus nello sfondo.
Interessante notare che i primi fotografi dovettero lottare a lungo prima di ricevere un riconoscimento professionale per la loro opera, che allʼinizio veniva attribuita semplicemente alle “macchine”.
Dai primi fotografi-editori, gli Alinari di Firenze, Perugia e il territorio circostante vengono ritratti valorizzando l’analogia con il paesaggio toscano, in una sorta di prosecuzione artistico-paesaggistica; mentre i fotografi romani la ritraggono come piccola propaggine dello Stato pontificio.
Tra i tanti, l’Umbria e il suo capoluogo sono stati amati dai fotografi stranieri; in particolare, si può dire che la regione è stata “scoperta” dai fotografi-paesaggisti scozzesi. Tra loro emerge Robert MacPherson, il quale dedica alle bellezze di Perugia molti scatti significativi: la chiesa di San Bernardino a San Francesco al Prato, l’Arco Etrusco, Palazzo dei Priori e piazza IV Novembre. Tra le sue immagini più suggestive campeggia la “Fortezza di Perugia costruita da Papa Paolo III, che ingloba un’antica porta etrusca” (1860). La foto ritrae in una prospettiva di grande effetto la Rocca Paolina al termine della fase di restauro dopo i danneggiamenti risorgimentali del 1848. (Verrà poi totalmente demolita dopo l’unità d’Italia).
Dopo gli scopritori d’oltralpe, inizia la prima avanguardia di fotografi perugini, che da un lato continuano a descrivere le bellezze locali, naturali e artistiche, dall’altro ritraggono le famiglie dell’élite. Le immagini poste al servizio della “pittoresca” raffigurazione del territorio andranno a confluire nel volume di Renzo Floriani L’Umbria descritta ed illustrata (1891).
Tra il 1900 e il 1915 si fa avanti il fenomeno della massificazione: l’uso pubblico del mezzo fotografico è indicato da immagini di manifestazioni pubbliche, da numerosi scatti di gruppo per scolaresche o compagnie di fanteria. Ci sono anche foto di gruppo tratte dalla vita quotidiana, come le tante persone, sorridenti e fiere, ritratte nell’auto-garage “Perugia” con un autobus pubblico nello sfondo. Queste istantanee sembrano contenere qualcosa dell’ottimismo fiducioso in un progresso senza limiti, approdato anche in questa bella città medievale avvolta nel verde.
Siamo alla vigilia della Grande Guerra, che disperderà brutalmente ogni illusione. Si conclude davvero l’epoca della “Perugia che fu” archiviata nella mostra del 1916.
In ogni caso, a imporsi come cruciale è sempre il fattore umano: è esso a rendere le immagini “parlanti”. Dimmi come fotografi e ti dirò chi sei.
A cura di Paola Ducato
Per una storia delle nonne e dei nonni. Dall’Ottocento ai giorni nostri
Autori: Elena De Marchi, Claudia Alemani
Editore: Viella, 2015
Pagine: 276
Nonne e nonni sono oggi protagonisti di primo piano della vita familiare. Ma qual era il loro ruolo in passato? Il grande interesse per le loro figure, dimostrato negli ultimi anni in numerose discipline (sociologia, psicologia, pedagogia), in Italia non ha finora trovato un corrispettivo nella storiografia, a differenza di quanto avvenuto in altri paesi.
Questo libro, che si colloca nell’alveo di tali studi, avvia un percorso di analisi storica della “nonnità” in Italia, delineando filoni di indagine inesplorati. Analizza il rapporto nonne-i e nipoti, sia all’interno delle famiglie delle élites sia dei ceti popolari; la costruzione dell’immagine della nonna rispetto a quella del nonno nelle differenti classi sociali; gli aspetti legati alla giurisprudenza dal XIX secolo ai giorni nostri; il lungo prevalere dei diritti dei nonni (“i nonni tutori”); l’immagine dei nonni e delle nonne nei testi letterari, il loro coinvolgimento nella cura dei nipotini fino a una cura parentale quasi a tempo pieno.
Il libro propone informazioni e stimoli di riflessioni a tutti coloro che, per curiosità personale, studio o lavoro hanno interesse per un aspetto finora pressoché sconosciuto della vita familiare del passato nel nostro paese.
Elena De Marchi è dottoressa di ricerca in Società europea e vita internazionale nell’età moderna e contemporanea presso l’Università di Milano.
Claudia Alemani collabora alla cattedra di Pedagogia generale dell’Università Bicocca di Milano.
A cura della redazione
Elena De Marchi è dottoressa di ricerca in Società europea e vita internazionale nell’età moderna e contemporanea presso l’Università di Milano.
Paola Ducato è docente di Storia e filosofia presso il liceo Annibale Mariotti di Perugia. Ha svolto attività di formazione e aggiornamento per docenti ed è autrice di pubblicazioni di interesse didattico, tra cui Fotogrammi per la Storia. Attività laboratoriale per la didattica della Storia, Morlacchi, Perugia 2004; Sogno “lamericano”. Laboratorio cine-storico, e-book pubblicato nel 2007 sul sito ufficiale della FILEF, Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie, www.filef.info; Rifacciamo boom, viaggio nell'Italia “miracolata” nella prospettiva di EXPO 2015, edizione Guardastelle, Perugia, 2015.
Lino Valentini è docente di Storia e Filosofia al Liceo classico “B. Zucchi” di Monza e formatore in numerosi corsi d’aggiornamento d’informatica e multimedialità finalizzati alla didattica.