Qualche anno prima, nel 1676, l'astronomo danese Ole Römer aveva aggiunto un tassello importante nella costruzione dell'idea di buco nero, misurando quantitativamente la velocità della luce pari a 300 mila km/sec.
Nei suoi lavori Newton non parla mai di buchi neri. Il primo a proporne, anche solo ipoteticamente, l'esistenza fu, nel 1783, il reverendo John Michell. In una lettera alla Royal Society propose, applicando il concetto di velocità di fuga ai corpuscoli della luce: “Se esistessero in natura corpi la cui densità non fosse inferiore a quella del Sole e il cui diametro fosse 500 volte maggiore di quello del Sole, la loro luce non potrebbe arrivare a noi […]”.
In altre parole, se esistessero in natura stelle con massa e raggio tali che la velocità di fuga sia uguale o maggiore di 300 mila km/sec, i loro corpuscoli luminosi ricadrebbero all’indietro, e quindi quei corpi apparirebbero invisibili da lontano, sarebbero stelle oscure, come le definiva Michell.
E aggiunse: “[…] dell’esistenza di corpi nelle suddette condizioni non potremmo dunque avere alcuna informazione osservativa; tuttavia, se un qualunque altro corpo rivolvesse intorno ad essi, forse potremmo derivare attraverso il suo moto l’esistenza del corpo centrale con un certo livello di attendibilità, poiché potremmo ricavare un’interpretazione delle irregolarità del suo moto inspiegabili in altro modo; poiché le conseguenza di tale supposizione sono ovvie e la loro considerazione va oltre lo scopo del presente lavoro, non le perseguirò ulteriormente […]“.
Tale “supposizione” sarà proprio il metodo impiegato dall‘astrofisica moderna per stanare i buchi neri.
Il prevalere però della teoria ondulatoria di Thomas Young su quella corpuscolare di Newton fece dimenticare, per oltre cento anni, le stelle oscure, fino a quando Einstein non rivoluzionò la Teoria della Gravità.
Nel 1915, Einstein formulò la Teoria della Relatività Generale, secondo la quale le masse determinino la struttura dello spazio-tempo. È proprio la “forma” dello spazio-tempo che guida il moto di tutti i corpi e anche della luce, come perfettamente sintetizzato dal fisico americano J. Wheeler: “La materia dice allo spazio come curvarsi; lo spazio dice alla materia come muoversi”.
Nel 1916, il matematico e astronomo tedesco Karl Schwarzschild (il cui nome Schwarz-schild significa proprio scudo nero) usò le equazioni della Relatività Generale per calcolare la geometria dello spazio-tempo intorno a una massa. Scoprì che, se la sfera in cui la massa è concentrata ha un raggio minore di un determinato valore, nessuna informazione, né particelle né fotoni, sono in grado di raggiungere un osservatore esterno perché la velocità di fuga risulta superiore alla velocità della luce.
Quella sfera rappresenta il cosiddetto orizzonte degli eventi, la superficie limite oltre la quale nessun evento può influenzare un osservatore esterno e la massa all’interno è un oggetto invisibile, battezzato, nel 1964, ancora una volta dal fisico americano J. Wheeler, buco nero.
Fino ad Einstein e Schwarzschild i buchi neri sono considerati ancora una soluzione matematica delle equazioni delle Relatività. Acquistano concretezza solo nel 1939, quando Tolman, Oppenheimer e Volkoff dimostrarono che una stella alla fine della sua evoluzione subisce un collasso gravitazionale che, se la sua massa è maggiore di 3 volte quella del Sole (3 masse solari), si comprime al di sotto dell’orizzonte degli eventi.
Nel 1963, Roger Penrose, uno dei tre premi Nobel per la Fisica 2020, dimostrò che l’orizzonte degli eventi rappresenta una superficie che forza tutto ciò che la colpisce a puntare verso il proprio centro, verso una singolarità a densità infinita, un’inevitabile creazione di un buco nero.