Vita su Marte e Venere? Sì, no, forse, boh

Siamo gli unici ospiti del Sistema Solare?

FISICA

Nel Sistema Solare esistono tre pianeti che sono rocciosi e si trovano più o meno alla distanza dal Sole necessaria per ricevere la giusta dose di luce e calore, due caratteristiche fondamentali per lo sviluppo della vita. Uno di questi è la Terra, gli altri due sono Marte e Venere. Una breve panoramica sulle ricerche condotte per capire se noi terrestri siamo in buona compagnia e ancora non lo sappiamo...

di Emanuele Balboni

Alla fine del Diciannovesimo secolo, molti astronomi erano persuasi che altri pianeti del Sistema Solare potessero essere abitati esattamente come la Terra. L'astronomo francese Camille de Flammarion scrisse diversi libri sulla possibilità che altri corpi celesti fossero abitati. Nel suo saggio La pluralité des mondes habités, Flammarion affermò che tutti i pianeti del Sistema Solare, non solo la Terra, erano in grado di ospitare la vita.
Oggi sappiamo che le affermazioni di Flammarion erano decisamente troppo ottimistiche, ma nel Sistema Solare esistono effettivamente tre pianeti che sono rocciosi e si trovano più o meno alla distanza dal Sole necessaria per ricevere la giusta dose di luce e calore, due caratteristiche fondamentali per lo sviluppo della vita. Uno di questi è la Terra, gli altri due sono Marte e Venere.

Un'intricata rete di canali

Tra tutti i pianeti potenzialmente abitabili secondo Flammarion, Marte era quello che destava il maggior interesse. Sfruttando la Grande Opposizione del 1877, l'astronomo Giovanni Schiaparelli osservò il Pianeta Rosso persuadendosi di aver individuato una fitta rete di canali sulla superficie. Schiaparelli disse di non essere in grado di stabilire se fossero opere ingegneristiche o piuttosto formazioni naturali. Purtroppo, nel tradurre il suo lavoro di osservazione in inglese, al termine canale venne associato canal, vocabolo che indica una ben precisa origine artificiale: a causa di questa traduzione ci si convinse che su Marte fosse presente una civiltà aliena in grado di opere ingegneristiche su scala planetaria.
Questa credenza divenne così diffusa che, nel 1900, l'Accademia delle Scienze Francese istituì un premio in denaro a chi avesse trovato il modo di mandare un messaggio e ricevere risposta da un altro pianeta, a eccezione di Marte: sarebbe stato troppo semplice!
A tutt'oggi usiamo il termine marziano per indicare genericamente forme di vita aliene intelligenti, una sineddoche probabilmente figlia di quel tempo.

Il pianeta Marte in un mosaico di immagini della sonda Viking Orbiter 1.
crediti: NASA/JPL/USGS

La Grande Opposizione

La Terra impiega un anno a completare un’orbita attorno al Sole, Marte l’equivalente di 1,88 anni terrestri; ciò vuol dire che, ogni 2 anni e 2 mesi circa, la Terra si trova a doppiare Marte passando tra il Pianeta Rosso e il Sole. Quando ciò avviene, si dice che Marte si trova in “opposizione”, perché - dalla Terra - appare in cielo in direzione opposta al Sole. È un periodo particolarmente adatto per osservarlo, in quanto visibile per l’intera notte e alla distanza minima dalla Terra. Ci sono però opposizioni più favorevoli di altre: poiché le orbite dei due pianeti non sono perfettamente circolari, le distanze tra i due corpi celesti all’opposizione possono cambiare a seconda del punto dell’orbita in cui avvengono. Quella del 1877 è stata chiamata “Grande Opposizione” perché la distanza tra Terra e Marte è stata di soli 56 milioni di km, mentre in opposizioni meno favorevoli la distanza può anche essere il doppio. Curiosità: la “Grande Opposizione” del 1877 è stata battuta - di circa 500 mila km - da quella del 2003, che resterà la miglior “Grande Opposizione” fino al 2287.

Ci vollero diversi anni per capire che la fitta rete di canali di Schiaparelli altro non erano che un'illusione ottica dovuta ai difetti delle lenti del suo telescopio. La prova definitiva arrivò con le prime fotografie della superficie di Marte da parte della sonda Mariner 4 nel 1965: le 22 fotografie realizzate dall'orbita attorno al Pianeta Rosso mostrarono un mondo non solo privo della fitta rete di canali descritta da Schiaparelli, ma anche più freddo e arido, con un'atmosfera meno densa di quanto ritenuto all'epoca.

La rete di canali osservata da Giovanni Schiaparelli

L’esperimento Labeled Release

Se è vero che le missioni Mariner dimostrarono l'assenza di civiltà avanzate sul pianeta, le loro immagini fornirono indizi rivelatori sul fatto che Marte in passato potesse avere abbondanza d'acqua in superficie, lasciando aperta l'ipotesi della presenza di microorganismi nel sottosuolo.
In quest'ottica vennero progettate le due missioni Viking, i cui lander si posarono su Marte nel 1976, portando tra il carico utile quattro esperimenti orientati alla ricerca di vita microbica sulla superficie marziana.
Dei quattro esperimenti, quello denominato "Labeled Release" (LR) prevedeva di irrorare diversi campioni di terreno marziano con dei nutrienti marcati con Carbonio-14, in modo da essere in grado di rilevare eventuali produzioni di diossido di carbonio (CO2) dovute a reazioni chimiche compatibili con la presenza di esseri viventi. I campioni produssero effettivamente CO2 radioattiva, un risultato che sembrava confermare la tesi di vita microbica su Marte, ma in breve tempo vennero proposte diverse ipotesi alternative che misero in discussione la conclusione iniziale. Tra queste, il fatto che l'irraggiamento del suolo marziano da parte dei raggi ultravioletti, non schermati dalla sottile atmosfera marziana, possa produrre uno strato superficiale di molecole altamente ossidanti, in grado di reagire con i nutrienti iniettati e produrre la CO2 osservata.
A distanza di più di quarant'anni, l'interpretazione dei risultati degli esperimenti effettuati dalle sonde Viking è ancora oggetto di dibattito.

Per approfondire:
• Programma Viking [ITA] >>
• The Case for Extant Life on Mars and Its Possible Detection by the Viking Labeled Release Experiment [ENG] >>

Laghi sotto il ghiaccio

Negli ultimi anni, le sonde in orbita attorno a Marte hanno osservato fenomeni che sono compatibili con la presenza di acqua nel sottosuolo marziano, segno che non tutta l’acqua che un tempo ricopriva il Pianeta Rosso è andata perduta nello spazio. Il radar MARSIS della sonda europea Mars Express ha scoperto numerosi laghi di acqua salata sotto la calotta del polo sud marziano. L’acqua di questi laghi è mantenuta liquida dalla grande concentrazione di sali disciolti: sono condizioni estreme, ma che potrebbero permettere la vita di alcune forme di batteri.

Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, Marte è passato dall’essere considerato sede di civiltà tecnologicamente avanzate a un’enorme distesa desertica e morta; ora però stiamo scoprendo quelle che potrebbero essere oasi in grado di ospitare alcune forme di vita. Solo il tempo, e ulteriori osservazioni, ci diranno se questi luoghi sono effettivamente abitati da batteri extraterrestri.

Il segnale registrato vicino al polo sud marziano dal radar di profondità MARSIS. I valori maggiori di 15 suggeriscono la presenza di acqua liquida.
crediti: Sebastian Emanuel Lauro et al. Nature Astronomy, 2020

Il gemello (malvagio?) della Terra

Venere ha dimensioni praticamente identiche a quelle del nostro pianeta, tanto da essersi meritato l'appellativo di "Gemello della Terra". Questo pianeta fu oggetto di minor interesse rispetto a Marte, principalmente a causa delle dense nubi che impediscono di osservarne la superficie. Si sa che l'assenza di informazioni spesso lascia campo libero alla fantasia, per cui in passato si sono susseguite varie speculazioni riguardo il suo possibile aspetto al di sotto dello strato nuvoloso. Per esempio, nel racconto breve "Pioggia senza fine" pubblicato per la prima volta nel 1951, lo scrittore di fantascienza Ray Bradbury si immaginò la superficie di Venere ricoperta da un enorme giungla sferzata incessantemente dalla pioggia.

Il pianeta Venere ripreso dalla sonda Mariner 10.
crediti: NASA/JPL-Caltech

Un luogo non proprio ospitale

In realtà, già nei primi anni del XX secolo vi era qualche indizio sul fatto che Venere e la Terra non fossero proprio identici: grazie a una serie di osservazioni nell'infrarosso, gli astronomi americani Theodore Dunham e Sydney Adams furono in grado di affermare che l'atmosfera venusiana è composta principalmente da CO2.
Le misure della sonda Mariner 2, che raggiunse Venere nel 1962, confermarono le misure di Dunham e Adams; fu inoltre possibile stabilire la temperatura del pianeta: all'incirca 500 °C, con poche variazioni tra l'emisfero in luce e quello al buio. Grazie alle misure di Mariner 2 Venere si svelò per ciò che effettivamente è: il gemello “malvagio” della Terra, un pianeta dove anche solo far atterrare una sonda è un'impresa ai limiti del possibile.

Questo i sovietici lo capirono molto bene a proprie spese. Dopo una serie di missioni preparatorie e di tentativi falliti, nel 1970 furono in grado di fare atterrare sul suolo venusiano Venera 7, un lander che assomigliava più a un batiscafo che a una navicella spaziale, dovendo resistere alle temperature proibitive, un'atmosfera corrosiva con nubi di acido solforico e pressioni pari a 90 atmosfere terrestri. La missione fu un successo, ma una volta atterrata la sonda resistette per soli 23 minuti prima di arrendersi all'ambiente ostile.

Un’oasi temperata

Con caratteristiche così estreme viene scontato ritenere Venere un pianeta assolutamente inadatto allo sviluppo di forme di vita.
Eppure, nel 1967 Carl Sagan e Harold Morowitz avanzarono l'ipotesi che Venere potesse essere abitato da microorganismi. Non in superficie, bensì negli strati intermedi dell'atmosfera venusiana. L'idea si basava sul fatto che, nel passaggio dalle gelide temperature dello spazio interplanetario alle infernali condizioni della superficie, ci deve essere una regione dell'atmosfera di Venere con caratteristiche intermedie, compatibili con lo sviluppo e il mantenimento di forme di vita microscopiche.
Le osservazioni confermarono la presenza di una zona attorno a quota 50 km con pressione simile a quella terrestre e temperature miti, proprio all'interno dello strato di nubi che, oltre a schermare i raggi ultravioletti provenienti dal Sole, sono ricche di acqua e composti dello zolfo.

Schema dell’atmosfera di Venere. La “zona temperata” - attorno a quota 50 km - ha pressione simile a quella terrestre e temperature comprese tra i valori di 0 e 80 °C.

A caccia della fosfina

Tra individuare una zona potenzialmente abitabile e affermare che essa sia effettivamente abitata c'è un'enorme differenza: come capire se l'atmosfera venusiana ospita davvero delle forme di vita, a 50 km di altitudine?

Nella ricerca di vita extraterrestre giocano un ruolo importante i cosiddetti gas "biomarcatori", sostanze volatili prodotte dal metabolismo degli esseri viventi e che possono essere rilevate analizzando la composizione delle atmosfere planetarie. Per la vita aerobica sono biomarcatori l'ossigeno, l'ozono, il metano; per la vita anaerobica uno dei principali candidati è la fosfina.

La fosfina (PH3) sulla Terra è presente in tracce a causa dell'attività umana (per la sua tossicità viene sintetizzata e usata come insetticida e ratticida), ma è anche un sottoprodotto del ciclo del fosforo in ecosistemi anaerobici.
Nel Sistema Solare si sono osservate discrete concentrazioni di fosfina nelle nubi superficiali di Giove e Saturno: si ritiene che essa venga prodotta negli strati interni dell'atmosfera – dove le condizioni sono ancora più estreme che sulla superficie di Venere – e poi trasportata in superficie dai moti convettivi della turbolenta atmosfera dei giganti gassosi. Praticamente, le uniche reazioni chimiche in grado di produrre fosfina in condizioni di temperatura e pressione simili a quelle terrestri di cui siamo a conoscenza sono legate a forme di vita (sintesi artificiale o metabolismo).

Riuscire a identificare atomi e molecole nell'Universo, e misurarne l'abbondanza, è ciò di cui si occupa la spettroscopia. L'atomo di un dato elemento ha orbitali atomici con energia ben definita e il salto degli elettroni tra un orbitale e l'altro porta all'assorbimento o all'emissione di ben precise lunghezze d'onda. È il cosiddetto “spettro” dell’elemento: una sorta di impronta digitale, solo... luminosa. Anche le molecole si comportano in maniera simile, ma con delle caratteristiche in più: in aggiunta ai salti degli elettroni tra gli orbitali atomici del composto, lo spettro di una molecola contiene anche le righe di assorbimento/emissione dovute ai moti di vibrazione e rotazione della molecola stessa.

In una campagna di osservazione di Venere nel giugno 2017, il telescopio James Clerk Maxwell (JCMT) alle Hawaii osservò una riga di assorbimento nelle microonde a 1,123 mm, una lunghezza d'onda compatibile con lo spettro rotazionale della fosfina. Il segnale non era sufficiente per parlare di scoperta vera a propria, perciò queste osservazioni vennero combinate con quelle realizzate nel marzo 2019 dall'Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) in Cile. Le osservazioni di ALMA confermarono quanto visto dal JCMT, indicando una elevata concentrazione di fosfina a una quota di circa 50 km dalla superficie di Venere.

I risultati dell'analisi delle osservazioni sono stati pubblicati nel settembre 2020 sulla rivista Nature Astronomy.

L'articolo ha subito suscitato un grande interesse (e titoli roboanti da parte della stampa generalista) perché la conferma di una tale abbondanza di fosfina nell'atmosfera di Venere avrebbe solamente due possibili spiegazioni: la scoperta di una nuova chimica al fosforo o, nel caso migliore, la presenza di vaste colonie di batteri anaerobi tra le nubi di Venere, la prima vera evidenza di forme di vita extraterrestri.

La cosa bella di fare scienza è che si può – anzi, si deve! – provare a replicare i risultati ottenuti. Dopo la pubblicazione dell'articolo, il gruppo di ricerca guidato da Jeane Greaves ha messo a disposizione i dati delle osservazioni di JCMT e ALMA, in modo che altri gruppi potessero analizzarli e processarli. E sono sorti alcuni problemi.

Alcuni gruppi di ricercatori hanno cercato di replicare i risultati dell’articolo, senza riuscirci. Ciò ha fatto ipotizzare che i dati di ALMA fossero mal calibrati. L’ipotesi è stata confermata da una revisione dei dati da parte del gruppo di ricerca originale: nella correzione pubblicata a fine 2020, il segnale visto da ALMA è risultato meno intenso ma pur sempre significativo.
Un altro gruppo di ricercatori ha usato una simulazione dell’atmosfera venusiana per confrontare dati osservati con quelli teorici, concludendo che la riga di assorbimento vista da ALMA potrebbe essere stata prodotta dall’anidride solforosa (SO2), una molecola la cui abbondanza sarebbe stata sottostimata dal gruppo di ricerca di Greaves.

Il dibattito sulla presenza di fosfina tra le nubi di Venere non è ancora concluso e solo ulteriori osservazioni potranno stabilire se l’atmosfera di questo pianeta ospita davvero forme di vita o se si è semplicemente trattato di un abbaglio.

Riga di assorbimento osservata da ALMA e attribuita alla fosfina.
crediti: Jane S. Greaves et al.; Nature Astronomy, 2020

Referenze iconografiche: Triff / Shutterstock

 

Emanuele Balboni è un astrofisico e lavora come divulgatore scientifico presso Infini.to - Planetario di Torino.

Il nuovo marchio per l’area scientifica della Scuola secondaria di I e II grado: una proposta integrata di prodotti e servizi per rispondere al sempre più decisivo ruolo delle discipline scientifiche nella formazione degli studenti.

 

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