ed accioché la notte
tu possi vagheggiare il puro argento
del volto immaculato,
ecco già [Diana] t’ha donato,
composto di sua man, questo stromento,
[…] questo cannone aurato,
fatto in forma di piva,
ch’appena al cinto arriva,
da capo a piè di doi cristalli ornato.
Da queste basse valli,
mentre l’aer s’imbruna,
per mirar la mia luna
scorciar potrò longhissimi intervalli.
Il cannocchiale nelle arti dei secoli successivi
In anni successivi il cannocchiale avrà un ruolo determinante in numerosissime opere: le più note sono quelle sul tema del Mondo della luna messe in musica da Galuppi, Haydn, Paisiello e Piccinni, che utilizzano – pur sottoponendolo a una serie di modifiche – l’omonimo libretto scritto nel 1750 da Goldoni. Ma in questi casi lo strumento scientifico, della cui importanza esisteva ormai piena consapevolezza, aveva perso ogni carattere di novità, fornendo solo un pretesto nel marcare la distanza fra personaggi retrivi e ancorati a un vecchio mondo da quelli colti e aperti al nuovo.
Tuttavia, nella Diana schernita non veniva mai menzionato esplicitamente Galileo. In quest’opera, infatti, il desiderio di nuove scoperte non produce esiti positivi: tramutato in cervo, Endimione verrà ucciso dai pastori e dalle ninfe. Per Galileo d’altronde era imminente, dopo numerosi avvertimenti più o meno velati, un nuovo e definitivo verdetto del Sant’Uffizio (l’atto di abiura è del 1633): nella sua versificazione, il librettista aveva scelto la prudenza.
Nei secoli successivi furono molti gli uomini di teatro a ispirarsi a Galileo, con particolare attenzione alla sua vicenda umana. È stato però Bertolt Brecht, in Vita di Galileo (testo dalla stesura tormentata, rimaneggiato fino al 1956), a offrirci la più appassionante riflessione sugli effetti dell’oscurantismo di cui fu vittima lo scienziato. E sulla scia del grande drammaturgo tedesco nasceranno poi le opere musicali del rumeno Corneliu Cezar (1964) e dello svizzero Michael Jarrell (2005).
Il cannocchiale nella musica contemporanea
Nel 2001 si discostò invece da Brecht – per basarsi su una puntuale ricostruzione a partire dall’epistolario – lo statunitense Philip Glass, musicista con studi di matematica alle spalle e che ha dedicato altre opere a importanti scienziati. Il libretto del suo Galileo Galilei, scritto insieme alla regista Mary Zimmerman, è improntato a un’ottimistica visione della scienza ed esalta il piacere della ricerca, senza paura di addentrarsi in dettagli tecnici e lasciando in secondo piano le ambiguità dell’uomo.
L’opera procede come una pellicola cinematografica avvolta al contrario: prende le mosse da Galilei studioso ormai celebre per arrivare al Galileo bambino, intento ad assistere a un’esecuzione musicale del padre Vincenzo. Utilizzando la forma dialogica (il modello è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) viene descritta, oltre alla scoperta del cannocchiale, l’esperienza del piano inclinato, condotta dallo scienziato per spiegare la caduta dei gravi. È poi riportato l’episodio, fra realtà e leggenda, di Galileo che in chiesa osserva le oscillazioni di una lampada (mentre il sacerdote, nell’omelia, propugna le idee di Aristotele sull’immobilità della Terra) e, notandone l’andamento pendolare, ne misura il tempo aiutandosi con il battito del polso della figlioletta, in modo tale da calcolare la durata delle pulsazioni. L’epilogo, teatralissimo e suggestivo, è invece di pura fantasia: s’immagina la rappresentazione di un’opera attribuita a Vincenzo Galilei – il quale, peraltro, non scrisse mai melodrammi – dove il piccolo Galileo, in sala ad assistere al lavoro del padre, utilizza il programma della serata arrotolato a mo’ di cannocchiale per osservare meglio la scena. Un gesto premonitore del suo futuro e degli sviluppi della scienza.