A scuola con i bambini… e le loro famiglie
Una chiacchierata con Laura Formenti
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Una riflessione in forma di intervista tra Laura Papetti, insegnante di Scuola primaria e autrice per Pearson, e Laura Formenti, docente di Pedagogia della Famiglia presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, Università Degli Studi Di Milano-Bicocca, sul tema del rapporto tra scuola e famiglia.
Cara Laura,
da anni ti occupi di famiglie, delle loro differenze, di come si possano promuovere e valorizzare in ambito educativo le loro diverse competenze e le loro pratiche di cura. Nell'ampio panorama delle tue ricerche, ti sei anche occupata del rapporto tra scuola e famiglie. Dal tuo osservatorio, in veste di ricercatrice e di consulente pedagogica, che cosa vedi? Come vedi questo delicato e fragile rapporto?
Oggi vedo soprattutto quelle che chiamo “reazioni scomposte”. Un agire e reagire di pancia, di istinto, assumendo ruoli predefiniti e trincerandovisi dietro, indossando maschere, senza un vero ascolto rispetto a che cosa ci chiede l’altro. Sempre più spesso mi si chiede di intervenire in occasioni in cui è già in atto un inasprimento di tensioni e irrigidimenti che partono da piccole fatiche comunicative tra adulti, che diventano veri e propri bracci di ferro. In tutto questo i bambini sono a margine del discorso e della disputa.
Incomprensioni e malumori possono essere riferibili anche al fatto che oggi i bambini sono più o meno inconsciamente considerati lo specchio di noi stessi, delle nostre capacità di essere genitori e delle nostre capacità di essere insegnanti?
Il narcisismo del genitore c’è sempre stato, ma gli adulti oggi fanno fatica a vedere il bambino, fanno fatica a separare chiaramente ciò che è del bambino e ciò che è loro. La stessa cosa vale per i docenti, che talvolta vivono le fragilità dei bambini come un attacco alla loro realizzazione personale e professionale. E invece c’è da rappacificarsi, perché non c’è relazione lineare tra ciò che fa il genitore/insegnante e ciò che fa il bambino.
L’educazione, lo dovremmo sapere, è “un’impresa ad altissimo rischio” e gli adulti non hanno il potere di determinarne gli esiti in modo diretto.
Perché allora troppo spesso vi sono tante incomprensioni, tanti fraintendimenti tra scuola e famiglie?
Proverei a evitare di parlare dei genitori e dei docenti come se fossero tutti uguali. Si presentano così perché sono i ruoli in cui l’organizzazione/il sistema li inserisce e li categorizza. Ma ogni famiglia e ogni docente porta un proprio sguardo sui bambini e sulla scuola.
Vero è che le generazioni precedenti avevano valori ben precisi e assegnavano anche alla scuola un ruolo ben preciso. C’era un generale consenso su cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Su cosa ci si dovesse aspettare dalla scuola e cosa dalle famiglie.
Oggi non è più chiaro che cosa deve fare la scuola, a cosa serve, in questo panorama culturale complesso, ricco e sfaccettato.
Ecco perché credo che la scuola, ogni scuola nello specifico, debba riflettere su di sé, sulle proprie risorse, sui propri valori e lo stile con cui lavora e debba dotarsi di un manifesto educativo esplicito. Le famiglie che accedono proprio a quella scuola, allora, in partenza sanno qual è il contesto educativo che incontreranno, quali le modalità di fare scuola. Il manifesto diventa importante anche perché permette – da questa prima esplicita consapevolezza – di costruire circoli virtuosi di confronto, di rispetto reciproco e di co-costruzione di un’idea di educazione.
Quali risorse sono indispensabili per realizzare la famosa “alleanza educativa” di cui tanto si parla e che non sempre si pratica?
La democrazia ha bisogno di persone capaci di dialogare, di interpretare la differenza e di gestire in modo positivo i conflitti che questa può generare. I grandi filosofi antichi vedevano proprio nella capacità di far evolvere le proprie idee nella disputa, grazie al conflitto, la possibilità di sviluppo e maturazione. Attraverso il confronto continuo e la capacità di lavorare sulle differenze di punti di vista si costruisce la capacità di stare nello spazio pubblico.
Torno a un accenno che hai fatto prima, rispondendo alla prima domanda, sul fatto che in questo grande tema del rapporto tra scuola e famiglie spesso i bambini sono letteralmente messi da parte. Come possiamo pensare di “rimetterli al centro”?
Ci sono scuole in cui i bambini – per esempio – partecipano ai colloqui dei docenti con le famiglie.
Ma al di là di situazioni istituzionalizzate io, per esempio, come genitore ho sempre preteso che i miei figli fossero messi a parte di quello che si diceva di loro e del loro percorso scolastico e più in generale educativo. Proprio gli aspetti educativi sono quelli che mi hanno sempre interessata di più, come genitore, al di là del rendimento scolastico.
Potrebbero quindi essere gli insegnanti a proporre qualche forma meno rigida e più aperta alle famiglie…
Gli insegnanti hanno certamente più responsabilità dei genitori nella gestione di questo rapporto. Rappresentano un’istituzione e sono professionisti al servizio delle famiglie. Rappresentano la scuola. Ecco perché credo che tutti gli insegnanti dovrebbero partecipare a percorsi di formazione sulla famiglia e sulla comunicazione con le famiglie. Non possono essere esperti solo di didattica e agire poi quotidianamente nei rapporti con le famiglie sulla base del buon senso, o come si è sempre fatto, senza una solida formazione di pedagogia della famiglia.
Anni fa ho seguito una tesi sul concetto di Collaborazione. Su una cinquantina di interviste semistrutturate sottoposte a insegnanti rispetto a che cosa intendessero per “collaborazione scuola-famiglia” la quasi totalità degli intervistati considerava collaborative le famiglie che eseguono quello che viene richiesto dalla scuola. Questo però è collaborazionismo, non collaborazione. L’idea che i genitori debbano adeguarsi al mio modello educativo non può funzionare.
Mi viene in mente in proposito una bella poesia che Margaret Mead, grande antropologa americana del secolo scorso, ha dedicato alla figlia:
Fa’ che io non sia inquieto fantasma
ossessivo dietro l'andare dei tuoi passi,
oltre il punto in cui mi hai lasciata
ferma in piedi nell'alba appena spuntata.
Devi essere libera di prendere un sentiero
la cui fine io non senta il bisogno di conoscere,
non ansia molesta di certezza
che tu sia andata dove io volevo.
Tornando all'idea di rimettere al centro i bambini, bisogna parlare molto con loro, di continuo. Troppo spesso trattiamo i bambini come esseri non senzienti. Possiamo coltivare di più la dimensione dell’ascolto.