Ha senso guardare alle epidemie del passato per capire quello che stiamo vivendo e il futuro che ci attende?

CULTURA STORICA

Il professor Corbellini, ordinario di Storia della medicina, traccia un quadro delle specificità ecologiche e storico-culturali delle grandi epidemie del passato, dalla peste alla “spagnola”. Se queste si presentano alquanto diverse rispetto alla pandemia globale del XXI secolo, è interessante osservare una serie di costanti nei comportamenti umani di fronte al contagio.

di Gilberto Corbellini

Sulla natura e l’uso della storia

Di fronte a una minaccia pandemica, o anche a un problema che generi meno ansia ma che abbia in comune il fatto che non si sa come venirne a capo efficacemente e rapidamente, viene spontaneo ricorrere alla memoria personale o a quella storica. Ci chiediamo se abbiamo già incontrato quella situazione o una analoga, ovvero se la cultura ci tramandi esempi utili per risolvere la sfida. Il passato, personale o che ci viene raccontato e documentato, è intuitivamente considerato deposito di insegnamenti o di verità: lo diceva chiaramente Cicerone (la storia maestra di vita e verità), che era anche un grande retore e usava la storia nelle sue arringhe per convincere più che per capire.
Anche se alcuni storici si inalberano quando lo si rammenta, la storia, come la memoria personale, è presente ricordato: è sempre una ricostruzione funzionale del passato che può essere più o meno pertinente, cioè più o meno aderente ai fatti, a seconda della capacità individuale, coltivata attraverso l’istruzione rigorosa, di tenere a bada, ricorrendo alle prove fattuali, le inclinazioni umane all’uso e abuso degli autoinganni e dei pregiudizi.
Noi andiamo verso il futuro con gli occhi fissi nello specchio retrovisore. Questo perché la vita, in ultima analisi, è storia. Che si tratti di evoluzione biologica – la quale procede conservando nel genoma degli organismi le tracce genetiche dei tratti risultati più o meno vantaggiosi nel passato per aver successo come specie - o culturale - che accumula nei manufatti e nei testi le esperienze cognitive ed emotive di temporanei successi o insuccessi - i nostri comportamenti individuali, prodotti dal cervello e negoziati attraverso il linguaggio e la teoria della mente1, fanno da cardano tra i due piani. Per quel che riguarda questo contributo, anche l’immunità, che ci protegge dai parassiti, è un elemento costitutivo dell’accoppiamento o disaccoppiamento che si può instaurare tra biologia e cultura.

Perché le pandemie del passato non sono confrontabili con Covid-19

Di fronte a Covid-19 si sono sprecati i confronti con le pandemie del passato, anche se sarebbe bastato riflettere sulle specificità ecologiche - cioè sulle differenze dei contesti ambientali, microbiologici e clinici di volta in volta chiamati in causa - per capire che si stava prevalentemente facendo un esercizio letterario. Epidemie e pandemie c’erano anche nel passato, ma ogni epidemia o pandemia è una storia a sé. Non sono come un’eclisse di sole, la caduta di un meteorite o un’eruzione vulcanica, grosso modo prevedibili e descrivibile usando leggi fisiche. Nelle epidemie e pandemie sono in gioco interazioni tra organismi viventi (popolazioni di parassiti patogeni e comunità di ospiti), con storie genetico-evolutive differenti, che si comportano diversamente a seconda dei contesti nei quali si trovano a interagire.
Le due pandemie più citate per stabilire paragoni, soprattutto in termini di minacciosità del fenomeno, sono state la peste cosiddetta “bubbonica” - in realtà più che la forma bubbonica, dove il bacillo si concentra nel sistema linfatico, fu quella polmonare a sterminare le comunità umane in Europa a metà del Trecento e fino a metà Settecento - e l’influenza “spagnola” del 1918-19. In entrambi i casi, tuttavia, gli agenti infettivi e l’ecologia della trasmissione erano diversi rispetto a Covid-192. Si dovrebbe dunque evitare l’inclinazione a immaginare meccanicisticamente i processi che danno luogo alle epidemie e pandemie.
L’agente della peste è un batterio, quindi non un virus, che si può trasmettere all’uomo attraverso il contatto con le pulci dei topi, ma soprattutto per via aerea nella forma polmonare, che nelle pandemie era la più diffusa. La mutazione che ha consentito al batterio chiamato Yersinia pestis di causare forme di infezione polmonari risale a circa 3000 anni prima dell’era volgare e la persistenza e fluttuazione di questa infezione sono dipese da dinamiche ecologiche che hanno riguardato la demografia e i movimenti di popolazioni di roditori, anche come conseguenza dei cambiamenti climatici3. Il tasso di letalità4 era altissimo (50% dei casi), anche perché non è una malattia dell’uomo, ma, come abbiamo detto, dei roditori e nella fattispecie del ratto: i bacilli della peste vivono in una pulce dei topi, per cui hanno calibrato la loro virulenza sui roditori, mentre quando infettano l’uomo si moltiplicano più aggressivamente.

La spagnola, che aveva un tasso di letalità medio del 2,5%, quindi simile a quello di Covid-19, riguardava un’ecologia umana diversa da quella medievale o da quella odierna. Si trattava di un virus, un agente influenzale che aveva fatto un salto di specie dagli uccelli all’uomo ricombinando il genoma5 probabilmente negli affollati ospedali militari del nord della Francia durante la Prima guerra mondiale. In quanto nuovo per la specie si rivelò più letale dei precedenti virus influenzali soprattutto a danno dei giovani adulti. Il virus H1N1 della spagnola era nuovo come lo è SARS-CoV-2 rispetto a SARS-CoV-1 (la sindrome respiratoria che si diffuse per la prima volta nel 2002 in Cina), con la differenza che nel 1918 nelle popolazioni umane c’erano ancora anticorpi contro i virus influenzali delle precedenti pandemie stagionali. Il che non vale per i Coronavirus che causano SARS, che non hanno circolato pandemicamente per generare anticorpi nelle popolazioni umane. Così si spiega sia perché la spagnola era meno letale negli anziani (a differenza di Covid-19), che avevano anticorpi parzialmente efficaci, sia perché i giovani erano più a rischio di morte, in quanto la mancanza di anticorpi lasciava che il virus si moltiplicasse e che poi si scatenasse, in un sistema immunitario efficiente, una tempesta infiammatoria letale.
Nel caso di Covid-19 - che varia in media come letalità da quasi 3% in Italia a 0,89% in Nuova Zelanda – l’impatto epidemiologico devastante è dovuto a una combinazione di fattori e probabilmente non sarebbe quasi stato notato un secolo fa. Intanto, ha un tempo di incubazione abbastanza lungo e nella maggior parte dei casi è asintomatico o paucisintomatico6, e questo spiega perché SARS-CoV-2 è dilagato mentre SARS-CoV-1 (e MERS) no7: queste due infezioni da Coronavirus erano più aggressive e letali, per cui gli infetti erano presto isolabili. Inoltre, Covid-19 colpisce più gravemente persone sopra i 70-80 anni, che soltanto da pochissimi decenni costituiscono una percentuale significativa della popolazione. Infine, fino alla metà degli anni Cinquanta non esisteva la terapia intensiva, per cui precedentemente non ci sarebbe stato nemmeno un impatto così significativo sul sistema sanitario, dato che i malati sarebbero morti rapidamente. Sembra paradossale ma alcune delle qualità che apprezziamo nelle nostre società avanzate hanno favorito il virus, e per contrastarlo siamo ricorsi a mezzi di fatto antichi e semplici, cioè quarantene e mascherine.

Le infezioni non sono tutte uguali

Le infezioni più letali nella storia umana causavano forme cliniche con sintomi respiratori e/o si trasmettevano per via aerea, come vaiolo, influenza, tubercolosi o peste (non era la forma bubbonica trasmessa dalle pulci quella più diffusa ai tempi di Giustiniano, a metà del VI secolo d.C., e nel Trecento, ma la peste polmonare, come abbiamo detto). Contro di esse, le quarantene (distanziamento fisico, e mascherine da inizi Novecento) potevano funzionare, mentre non servivano a nulla contro colera, febbre gialla, malaria, tifo esantematico, Aids: quando i vettori sono l’acqua o un insetto, distanziamento fisico-sociale e mascherine servono a poco.
Del resto, le misure di distanziamento o di riduzione della possibilità di contagio nel passato duravano poco: non c’erano mezzi materiali (o Netflix e Internet a casa) per sopravvivere a lungo nell’isolamento, e a un certo punto i beni di prima necessità dovevano arrivare e i commerci riprendere. L’andamento delle epidemie dipendeva dalla rapidità con cui i parassiti patogeni8 si diffondevano nella popolazione, da quante persone morivano o erano suscettibili di venire infettate oppure fuggivano. Senza trascurare che il riciclo generazionale era molto più veloce, dato che l’aspettativa di vita alla nascita era ben sotto i 40 anni quasi ovunque fino a metà Ottocento, per cui ondate di epidemie/pandemie si ripetevano periodicamente in quanto l’immunità non si trasmette da una generazione all’altra.
Sino a fine Ottocento i medici e sanitari si dividevano tra contagionisti, che credevano nella trasmissione delle malattie per contatto, e anticontagionisti, i quali pensavano che le epidemie fossero causate da miasmi: effluvi ambientali malsani che colpivano intere comunità. I primi erano contro la libera circolazione di uomini e merci quali supposti vettori di epidemie, i secondi criticavano le quarantene negando il contagio, e denunciavano gli effetti economici devastanti delle misure restrittive. Le scoperte scientifiche hanno dato ragione ai primi (anche se fino a Louis Pasteur9 l’idea di contagio e la sua associazione a specifiche malattie contagiose rimasero vaghe), che però spesso coincidevano con i settori più retrivi e conservatori della società.

La nostra mente però non è molto cambiata

Quello che è rimasto costante nei nostri rapporti con le pandemie e che ci può insegnare qualcosa sono i comportamenti che la minaccia del contagio scatena.
Le pandemie sono fenomeni sociosanitari relativamente recenti nella storia evolutiva della specie. Prima che si formassero società agricole di dimensioni sufficienti per consentire la circolazione di infezioni acute non esistevano; e prima dei processi di globalizzazione, inizialmente sostenuti da mezzi di trasporto meccanizzati più rapidi di carovane ed eserciti, non esistevano le pandemie in senso moderno.
Le risposte iniziali a queste novità epidemiologiche per le comunità umane in lievitazione demografica erano alcune intuizioni cognitive acquisite come cacciatori-raccoglitori: l’euristica del contagio (se tocco un malato magicamente posso ammalarmi), l’emozione del disgusto (il ribrezzo per la condizione del malato mi aiuta a starne lontano) e la ricerca del capro espiatorio, ovvero il bisogno di trovare una causa o una spiegazione psicologicamente soddisfacente della minaccia incombente sul futuro e sulle persone care. Con questi strumenti - sostenuti da numerose inclinazioni cognitive a supporto di pregiudizi, avversione ai rischi, attaccamento a proprie convinzioni e alle tradizioni ecc. -, la nostra specie ha navigato per millenni nella credenza che esistano i “miasmi”. Fino alla scoperta, avvenuta circa centocinquant’anni fa, che le infezioni sono trasmesse dai microrganismi. Di fatto, quelle prescientifiche erano risposte individuali funzionali alle logiche di sopravvivenza e riproduzione; si trattava di processi cognitivi ed emotivi selezionati e utili limitatamente a demografie definite, ma che erano di ben poco aiuto in mancanza di conoscenze e mezzi di intervento. Sono state la scienza, la tecnologia e lo sviluppo industriale a consentire alle società moderne di spiegare e governare le pandemie.

I vaccini e i pregiudizi

Le società via via organizzate e falcidiate dalle epidemie hanno cominciato a osservare – per primo Tucidide nella Guerra del Peloponneso – che le persone che guarivano spontaneamente diventavano resistenti contro quella specifica malattia. Poco dopo l’anno Mille, le comunità della Cina, e in seguito quelle dell’India, dell’Asia minore e dell’Africa subsahariana, immunizzavano i giovani contro il vaiolo usando una variante meno letale del vaiolo umano stesso (variolazione). Non risulta che vi fossero obiezioni. Era un intervento relativamente protettivo contro le deturpazioni e la morte, praticato come un rituale di iniziazione (morivano circa 2/3 su 100, contro i circa 30 su 100 che si ammalavano di vaiolo). La variolazione divenne però, nell’Occidente illuminista, una pratica controversa: se pensatori come Voltaire erano favorevoli, Kant e Rousseau la giudicavano innaturale e ritenevano immorale esporsi a un rischio di morte.
I vaccini moderni, diventati sempre più efficaci e sicuri, e le vaccinazioni sono il più eclatante caso di successo di un’azione medico-sanitaria a livello sociale, e sono anche un esempio importante per studiare come e perché aspettative e scelte individuali producono effetti sociosanitari d’insieme. Ma non c’è modo di capire i comportamenti individuali rispetto al vaccino partendo da una presunta logica che riguarda la società tutta.
La logica sociale delle epidemie/pandemie è quella banalmente statistica della cosiddetta legge dell’azione di massa: ogni patogeno trasmissibile richiede una soglia minima di popolazione suscettibile per circolare e provocare una epidemia. Quindi se si deve scendere sotto una certa soglia per interrompere la diffusione del patogeno, questo dipende dalla disponibilità individuale di assumersi il rischio, pur minimo, di vaccinarsi o di far vaccinare il proprio figlio. Ma la logica dei comportamenti di fronte alla malattia e della salute è quella, appunto, individuale o familiare (nel senso che noi facciamo quello che serve intuitivamente per proteggere dalle malattie noi stessi e i nostri cari) e servono razionalità o fiducia nelle istituzioni per capire che è nel nostro interesse partecipare alla campagna sociale di vaccinazione.
Quando i rischi di infezione e morte erano molto alti e quando le sensibilità per le libertà individuali non erano così spiccate, l’introduzione dell’obbligatorietà delle vaccinazioni, soprattutto pediatriche, produceva effetti positivi. Chi governa può stabilire un obbligo, ma è difficile che sia efficace verso chi rifiuta di vaccinarsi se si tratta di adulti, vivendo in società dove l’autodeterminazione e il consenso informato sono stati eretti a baluardo contro abusi e discriminazioni ai danni dei pazienti.
Lo scarto tra la percezione dell’utilità sociale - che è solo a livello statistico - e quella dell’utilità o del rischio individuale spiega la resistenza alle vaccinazioni: paradossalmente nel caso del Covid-19 sono anche gli errori di comunicazione e l’eccesso di informazioni che circolano in rete, a cui le persone accedono, a creare sospetti e paure, stante che i vaccini sono l’unico farmaco che ci somministriamo mentre siamo in piena salute.
Anche nel caso delle discussioni odierne su vaccini e vaccinazioni sarebbe poco costruttivo cercare nel passato esempi illuminanti per l’attualità. Ma analogamente a come sono andate le cose per la spiegazione e il controllo delle pandemie, che soltanto con le conquiste scientifiche ed economiche sono diventati possibili, anche nell’uso di uno specifico presidio profilattico contro Covid-19 si dovrebbe ricorrere di più alle scienze del comportamento umano per affrontare le resistenze verso i vaccini. Si dovrebbero intercettare e disinnescare quelle inclinazioni a ragionare in modi che se erano razionali per i nostri antenati cacciatori-raccoglitori, non lo sono nelle società complesse in cui oggi viviamo, e lavorare nel senso di far apparire la vaccinazione non come un obbligo o una costrizione, ma come una scelta individuale.

NOTE
La teoria della mente, in particolare, è il presupposto della negoziazione sociale, perché consiste nella nostra unica capacità di attribuire agli altri una mente, quindi pensieri, intenzioni, emozioni, ecc., che non necessariamente coincidono e più spesso fraintendono quello che gli altri pensano o intendono fare. La teoria della mente e la comunicazione servono per mettersi d’accordo socialmente, quindi anche per quel che riguarda il significato o l’utilità delle storie, e tessono le trame dei complessi rapporti tra piano biologico e culturale delle nostre esperienze. Si pensa che le persone affette da sindromi autistiche siano più o meno incapaci di “mentalizzare”.
2 Ogni malattia trasmissibile è caratterizzata da una propria ecologia, cioè da un insieme di fattori che interagiscono in un dato ambiente e costituiscono l’ecosistema di ogni malattia infettiva: abbiamo il parassita (con la sua specifica biologia e le sue modalità di trasmissione), l’ospite (con la sua specifica biologia e i suoi usi e costumi, che per l’uomo includono le istituzioni politiche e le misure mediche), il clima (temperatura, umidità, ecc.), i numerosi cofattori presenti nell’ambiente e che possono influenzare l’epidemiologia e la clinica, ecc.
3 L’agente della peste è “da sempre” endemico nelle popolazioni dei roditori originari delle pianure asiatiche (Cina e Mongolia in particolare), e queste popolazioni son regolarmente migrate come conseguenza di cambiamenti climatici e demografici, portando la malattia via via tra le comunità umane con cui esse entravano in contatto. Non tutte le specie di ratti sono suscettibili di ammalarsi e si pensa che ad allontanare la peste dal continente europeo abbia concorso la sostituzione alla più pericolosa specie Rattus rattus (ratto nero) della specie Rattus norvegicus (ratto grigio), avvenuta durante la Piccola era glaciale alla metà del XIV e alla metà del XIX secolo.
4 Il tasso di letalità (in inglese case fatality ratio o CFR) è la percentuale di morti causata da una certa malattia rispetto al numero totale di persone diagnosticate con quella malattia in un periodo specifico.
5 Il genoma del virus dell’influenza del 1918-19 (H1N1) è stato isolato in alcuni reperti istologici di quegli anni e in particolare in una donna Inuit seppellita nel permafrost nel 1918. Si è visto che aveva un’origine aviaria e aveva acquisito una serie di cambiamenti genetici (non è chiaro come) che lo rendevano in grado di trasmettersi da uomo a uomo.
6 Nel senso che o non provoca sintomi, in particolare nei giovani adulti, o causa sintomi lievi che possono essere trascurati e quindi favorire la diffusione del virus.
7 La pandemia di SARS (SARS-CoV-1) tra il 2002 e il 2004 colpì 29 paesi, causò 8.096 casi, con 811 morti (aveva un tasso di letalità del 9,6%), mentre MERS-CoV ha mostrato un tasso di letalità del 35%, diffondendosi in 24 paesi, causando 2500 casi e uccidendo più di 900 persone.
8 Si definisce parassita qualunque organismo che vive a spese di un altro. Il parassitismo o un’infezione non sono di per sé un problema, e sono normali le forme di simbiosi per cui ospite e parassita traggono reciproci vantaggi dall’associazione; diventano un problema se ne derivano un danno o una malattia (vedi box).
9 Louis Pasteur rivoluzionò le conoscenze scientifiche del mondo microbiologico, dimostrando sperimentalmente che numerosi processi di trasformazione, come la fermentazione alcoolica o i processi putrefattivi, sono dovuti a microbi (che non si generano spontaneamente ma si moltiplicano), e che anche le malattie trasmissibili sono causate da microrganismi, che in ragione delle loro caratteristiche biologiche danno luogo a diverse forme cliniche e si trasmettono in modi diversi.

Referenze iconografiche: World History Archive / Alamy Stock Photo

Parassiti, malattie, uomini e numeri

• Il numero di specie microbiche sul pianeta si stima tra 120mila e decine di milioni.
• Il numero di batteri negli oceani è 100 milioni di volte (13×1028) il numero di stelle nell’universo.
• Il tasso di infezioni virali negli oceani è 1×1023 al secondo ed elimina ogni giorno il 20-40% dei batteri.
• Un grammo di placca dentale contiene circa 1×1011 batteri, circa il numero delle persone vissute sul pianeta fino a oggi.
• Oltre un kilogrammo di batteri colonizza in media il nostro intestino e un adulto espelle ogni anno con le feci l’equivalente del proprio peso in batteri.
• Sulla Terra si stima vi siano 1×1031 virus, che messi uno vicino all’altro coprirebbero la distanza di 100milioni di anni luce.
• I 2/3 dei 10 milioni di morti circa ogni anno per malattie infettive è causato da 20 patogeni.
• Le malattie infettive conosciute sono 1407: gli elminti ne causano 287, i protisti 57, i funghi 317, i batteri 538, i virus 206.

SARS-CoV-2 (che causa Covid-19) ha un diametro di 100nm, un volume di 10–3 fL e una massa di 1 fg. In un malato si possono produrre da 109 a 1011 particelle virali, si tratta di una massa tra 1 μg e 100 μg, cioè da 1 a 100 volte meno della massa di un seme di papavero. Questa apparentemente insignificante quantità può uccidere una persona. Nel pieno della pandemia la massa totale dei virioni che infettano la specie è compresa tra 0,1 kg e 10 kg. L’evoluzione del virus è molto rapida. Alla base c’è il fatto che per ogni infezione si hanno 0,5 mutazioni, e siccome ogni giorno nel mondo le infezioni sono tra 0,3 e 3x106, vengono trasmesse quotidianamente tra 0,1 e 1x106 mutazioni su scala mondiale.

 

Gilberto Corbellini (1958) è professore ordinario di Storia della medicina presso la Sapienza Università di Roma. È autore di vari libri, tra cui: La ragione negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con G. Jervis, 2008), Storia e teorie della salute e della malattia (2014), Bioetica per perplessi. Una guida ragionata (con C. Lalli, 2016), Nel paese della pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà (2019), La società chiusa in casa. La libertà dei moderni dopo la pandemia (con A. Mingardi, 2021).

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