La corsa allo spazio e la conquista della Luna

Corsa allo spazio

CULTURA STORICA

Nel contesto della Guerra fredda, per Usa e Urss lo spazio divenne il nuovo campo di battaglia. La scienza dei razzi era nata nei laboratori della Germania nazista. I vincitori della guerra se ne spartirono i segreti, inaugurando la competizione tecnologica che sarebbe servita al controllo del cielo, prima con piccoli oggetti teleguidati e poi con equipaggi umani.

Marco Pivato

Spazio, il nuovo ring tra Usa e Urss

Nel secondo dopoguerra i progressi nella tecnologia aerospaziale, che miravano al controllo dei cieli, si prestavano perfettamente al gioco della competizione politica tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Se fino agli anni quaranta, dell’atmosfera l’uomo aveva potuto esplorare soltanto poche centinaia di metri in altezza grazie ai primi aerei, negli anni cinquanta prototipi di nuovi missili a gittata intercontinentale avevano espanso le possibilità allorché diventò possibile telecomandare dispositivi che, grazie a una propulsione controllata, potevano sollevarsi fino a diversi chilometri dal suolo per veicolare lontano ordigni oppure sonde. Per inquadrare storicamente la conquista dell’orbita terrestre prima e della superficie lunare poi, bisogna quindi pensare a queste imprese innanzitutto come obiettivi militari e non puramente scientifici.

Questione di scienza, ma soprattutto di budget

Se è vero che il cuore del conflitto politico tra Occidente e Oriente fu l’esibizione delle possibilità militari, la scienza divenne, contemporaneamente, il mezzo e il limite dei contendenti. Non si trattava più di progettare carri armati più agili o armi che ricaricassero più velocemente, ma di portare testate atomiche a seimila chilometri di distanza, su traiettorie stabili a centinaia di metri dal suolo. E dopo le testate atomiche, per possedere veramente la sensazione di controllare il mondo, sarebbe dovuto toccare all’uomo. Negli anni cinquanta la tecnologia non era ancora matura rispetto alle pretese dei governi e dei generali, ma gli scienziati avevano da poco imparato una preziosa lezione: progetti molto ambiziosi sono possibili, serve tempo e denaro, ma maggiore è il budget minore è il tempo. Lo aveva dimostrato empiricamente il Progetto Manhattan, che portò alla costruzione della prima bomba atomica negli anni quaranta. Anche quella fu una competizione scientifica tra superpotenze (Gli Alleati e la Germania di Hitler) che nascondeva un primato militare: gli Stati Uniti erano arrivati primi investendo un capitale umano da 130.000 persone, tra personale specializzato e impiegati, e un budget da due miliardi di dollari. Stalin e Truman, consapevoli di quella lezione, prepararono la conquista dello spazio a partire proprio dalle questioni amministrative. Più tardi i sociologi della scienza chiameranno “Big Science” questo modello che individua nei capitali umano ed economico i motori dell’impresa scientifica.

La scienza dei razzi: l’eredità della Germania nazista

La Germania di Hitler aveva investito molto nella ricerca scientifica, nella speranza che le fornisse gli strumenti per vincere la guerra. Non era riuscita a terminare la bomba atomica per prima, ma nella missilistica aveva raggiunto grandi risultati. Tutto quello che, alla fine degli anni quaranta, c’era da sapere sulla scienza dei razzi si trovava a Peenemünde, località tedesca affacciata sul mar Baltico, che dal 1937 ospitava il sito di sperimentazione in cui si progettarono i primi missili da crociera V1 e V2. L’eredità di Peenemünde fu così spartita: se, da un lato, i russi, arrivati per primi alla fine della guerra, portarono in patria la tecnologia, riuscendo in questo modo a possedere i prototipi di missili più avanzati sulla piazza, dall’altro, gli ufficiali nazisti, compresi i loro scienziati, si erano consegnati per tempo agli americani, preferendoli alle prigioni sovietiche. Ai russi quindi la tecnologia, agli americani i cervelli, secondo una precisa operazione segreta orchestrata da Washington per tradurre negli Stati Uniti il maggior numero di scienziati nazisti. Tra questi anche Wernher von Braun, capo della missilistica tedesca, creatore dei V2. Dopo la cattura, Von Braun fu riabilitato e destinato a una promettente carriera ai piani alti dell’esercito.

Il programma spaziale sovietico

Anche i russi avevano uno scienziato chiave, si chiamava Sergej Korolëv; come von Braun era ingegnere e guidava la ricerca scientifica sovietica dedicata alla conquista del cielo. Nell’immediato dopoguerra Korolëv venne incaricato dal Cremlino di progettare razzi intercontinentali - capaci di veicolare armi atomiche oltreoceano - e contemporaneamente divenne capo del primo programma spaziale. Tutto quello che avevano a disposizione Korolëv i suoi uomini erano i rottami di Peenemünde, ma gli americani ancora meno: non avevano riportato in patria prototipi e quindi toccò a von Braun e colleghi, che li avevano già costruiti per Hitler, riprodurli e migliorarli. La macchina della propaganda aveva messo le mani avanti con gli annunci, e già tra il 1955 e il 1956 Eisenhower e Chrušcëv si rincorrevano con la promessa dell’imminente messa in orbita di un satellite artificiale. Nel passare dalle parole ai fatti, Korolëv mirò ad abbandonare ambizioni megalomani, come quelle di von Braun che martellava il Pentagono con l’idea di colonizzare la Luna e poi Marte, pensando a un piccolo satellite di alluminio. Spingerlo in orbita, tuttavia, non sarebbe stato uno scherzo, perché serviva la scienza dei motori a reazione, il cui padre era von Braun.

I successi di Korolëv

Ai russi mancava la teoria dell’ex scienziato nazista, ma avevano fatto pratica istituendo, all’inizio degli anni cinquanta, la prima, segretissima, base di lancio del mondo: si chiamava Baikonur, si trovava nelle steppe del Kazakistan e nel 1957 cominciò a eseguire test con i razzi vettori R-7 “Semyorka”, i primi missili balistici intercontinentali della storia. Dopo alcuni fallimenti, una versione modificata dell’R-7 riuscì a portare in orbita il primo satellite artificiale. Erano le prime ore del 4 ottobre 1957, le 20.28 in Italia, ed era appena cominciata l’era delle esplorazioni spaziali. Il buon esito della missione convinse il Cremlino a commissionare a Korolëv e squadra una nuova missione per rafforzare il vantaggio sugli americani. Il 3 novembre 1957 fu pronto un nuovo apparecchio, si chiamava Sputnik 2 e alloggiava al proprio interno un essere vivente: una cagnolina di nome Laika. Ancora un razzo vettore R-7 portò in orbita il nuovo satellite, che restò in viaggio 162 giorni. Sensori applicati al corpo dell’animale permisero ai tecnici da terra di controllarne pressione sanguigna, battiti cardiaci e frequenza respiratoria. Ma il destino di Laika era segnato alla partenza: benché per molto tempo si cercherà di occultarne le modalità della fine, si saprà che la cagnetta morì a cinque ore dal lancio a causa degli eccessivi sbalzi termici. Le missioni Sputnik proseguirono ancora alcuni anni, portando in orbita cani, topi, ratti, conigli e piante.

Il programma spaziale americano

Mentre la propaganda lavorava pubblicamente, la segreta pragmaticità di Korolëv aveva portato i sovietici un passo avanti ai diretti competitor. Gli americani furono colti impreparati, tant’è che il 6 dicembre 1957 il razzo vettore Vanguard, che avrebbe dovuto portare in orbita l’omonimo satellite USA, in risposta ai sovietici, esplose praticamente ancora sulla rampa.
Il primo satellite artificiale degli americani a raggiungere stabilmente l’orbita terrestre fu, il 31 gennaio 1958, Explorer 1: progettato al Jet Propulsion Laboratory del California Institute of Technology, lasciò l’atmosfera grazie alla spinta del razzo Jupiter-C, sviluppato da von Braun. Fu il primo vero successo del programma spaziale USA, cominciato nel 1956 con la fondazione dell’Army Ballistic Missile Agency (Abma), l’agenzia governativa gestita dall’esercito, sempre con la direzione scientifica di von Braun. La rappresaglia americana era appena cominciata. Il 19 luglio 1958 Einsenhower istituì la National Aeronautics and Space Administration (Nasa), l’agenzia governativa responsabile del programma spaziale e della ricerca aerospaziale, e la Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa), l’agenzia governativa del dipartimento della Difesa incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare. Non solo, il Congresso emanò il National Defense Education Act, una legge che destinava alcuni miliardi di dollari al sistema educativo per assicurare un’istruzione adatta a formare una classe di cervelli da impiegare nell’industria della ricerca scientifica dedicata al governo. Era l’effetto dei documenti preparati dai consiglieri di Eisenhower sulla Big Science: ai politici americani era sempre più chiaro il nesso tra budget e scienza, capace di mettere il turbo all’industria e all’economia, che dovrà servire a tenere a bada la minaccia comunista.

La gara dei satelliti

Nell’estate del 1958 Eisenhower autorizzò la pubblicazione di un nuovo documento dei suoi consiglieri scientifici per sondare il terreno al Congresso: servivano due miliardi di dollari per arrivare sulla Luna. Cominciò quindi una fase di sperimentalismo forsennato per avvicinarsi all’obiettivo. Il programma “Pioneer”, dall’agosto 1958 al dicembre 1960, mandò nello spazio nove sonde ma collezionò soprattutto disastri: esplosioni sulle rampe, perdite di contatto e lanci che mancavano l’orbita lunare. Negli stessi anni, i sovietici inaugurarono il programma «Lunik» per esplorare il nostro satellite naturale. Lunik 1 mancò la Luna finendo in orbita attorno al Sole, mentre Lunik 2 riuscì a impattare nel Mare della tranquillità, diventando il primo oggetto artificiale ad aver raggiunto un altro corpo celeste. Nell’ottobre del 1959 Lunik 3 orbitò intorno alla Luna scattando le prime foto in assoluto del lato nascosto.
Da entrambe le parti, rispetto all’obiettivo della “conquista” dello spazio, si trattò di missioni dai risultati modesti, ma solo apparentemente: a ogni volo le sonde catturavano dati scientifici inediti e preziosissimi per spianare la strada all’uomo, che una volta lassù si sarebbe dovuto riparare dalle temperature, dai micrometeoriti e dalle letali radiazioni prodotte dal Sole.

Il primo uomo nello spazio

Nella corsa all’esplorazione dello spazio lo stallo della fine degli anni cinquanta fu bruscamente interrotto il 12 aprile 1961. Quella mattina, dal cosmodromo di Baikonur partì alla volta del cielo l’ennesima capsula spinta da un razzo R-7. Si chiamava «Vostok». In pochi minuti raggiunse l’orbita terrestre stabilendosi alla velocità di 27.400 km/h e oscillando tra i 302 e i 175 chilometri di altezza. All’interno si trovava l’aviatore Jurij Alekseevic Gagarin, il primo essere umano a viaggiare nello spazio. La capsula, telecomandata da Terra, volò sulla Siberia, il Pacifico e sorvolò i cieli d’Africa, per fare rientro dopo 108 minuti. L’impatto dell’evento fu chiaramente politico, storico, mediatico ma anche sociologico. Non sappiamo, infatti, se il cosmonauta pronunciò effettivamente le parole attribuitegli, ma queste fecero breccia in un momento di grandi tensioni tra la popolazione umana: «Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini». E ancora, nel rispetto dell’ateismo della propaganda comunista: «Non c’è nessun Dio quassù».

Il primo americano nello spazio

Nel frattempo, il nuovo presidente americano, il democratico John Kennedy, aveva promesso una svolta nella corsa allo spazio. La nuova amministrazione riuscì, in effetti, a portare il suo primo uomo in orbita. Partito il 5 maggio 1961 da Cape Canaveral, Alan Shepard compì un volo suborbitale a bordo della capsula «Mercury». Oltre ad essere in ritardo l’impresa degli americani fu deludente rispetto a quella dei sovietici: il viaggio durò un sesto di quello di Gagarin e coprì un novantesimo della distanza percorsa dalla capsula Vostok.
Dopo la battaglia dei satelliti, cominciarono a sfidarsi gli equipaggi umani: German Titov fu il secondo sovietico nello spazio, mentre la Nasa eguagliò i russi con John Glen, che completò tre orbite intorno alla Terra (1962). Nel 1963 fu la volta della prima donna cosmonauta, Valentina Tereškova che rimase nello spazio per quasi tre giorni e ben 49 orbite.

La promessa di Kennedy

John Kennedy, umiliato dai continui record sovietici proprio nel momento in cui la Guerra fredda conosceva la sua fase più critica1, pensò di giocare una mano che le vincesse tutte. Il 12 settembre 1962, durante un discorso alla Rice University (Houston, Texas) affermò, di fronte a 35mila persone: «Nessuna nazione che aspiri a essere alla guida delle altre può attendersi di rimanere indietro nella corsa per lo spazio»2. Quindi la promessa: «Abbiamo deciso di andare sulla Luna entro questo decennio». Il Presidente faceva sul serio: aveva appena chiesto3 al Congresso di sbloccare diversi miliardi di dollari per il nuovo programma spaziale chiamato “Apollo”. I fondi a disposizione della Nasa, da 500 milioni di dollari nel 1960 diventarono 5,2 miliardi nel 1965 e l’Agenzia passò da 10mila a 36mila dipendenti tra il 1960 e il 1963. A questo punto gli Stati Uniti si giocavano il tutto per tutto. Grazie agli enormi finanziamenti, von Braun passò in vantaggio, e definitivamente nel 1966, quando Sergej Korolëv morì sotto i ferri durante un’operazione di cancro. È dibattuto quanto la scomparsa dell’ingegnere sovietico possa avere pregiudicato il programma spaziale del Cremlino, o se invece i mezzi economici disposti da Kennedy avrebbero in ogni caso spianato la strada ai suoi.

L’allunaggio

Cominciò allora una stagione di test per verificare il collaudo della nuova generazione di lanciatori Saturn, firmati ancora una volta da von Braun. La prima di queste missioni si trasformò però in tragedia: il 27 gennaio 1967 la navetta dell’Apollo 1 prese fuoco sulla rampa e i tre astronauti morirono carbonizzati. Seguirono quindi missioni senza equipaggio e altre con equipaggio che orbitarono intorno alla Luna per poi scendere fino a 15 km dalla superficie (Apollo 10). Ma soltanto la missione Apollo 11 riuscì a portare i primi uomini, Niel Armstrong e Buzz Aldrin, sul suolo del nostro satellite, il 20 luglio 1969, mentre Michael Collins, terzo membro della missione, rimaneva ad aspettarli nel modulo di comando, in orbita lunare. Per controllare il modulo di comando (la navicella che ospitava gli astronauti) e il LEM (il lander con cui allunarono), la Nasa utilizzò l’Apollo Guidance Computer (AGC), necessario a gestire tutte le operazioni di navigazione nello spazio. L’AGC pesava 30 kg e aveva una frequenza di calcolo fino a 2 Mhz con 152 kByte complessivi di memoria: alcune migliaia di volte inferiore a quella di uno smartphone moderno. (> simulatore del computer a bordo del modulo di comando e del LEM)

Sul sito della Nasa, le immagini e i filmati delle missioni Apollo:
Apollo
Apollo11

Note

1. L’amministrazione stava affrontando gli eventi che avrebbero portato alla crisi dei missili di Cuba.
2. Puoi vedere e ascoltare il discorso: J.F. Kennedy, Rice University Speech.
3. Puoi vedere e ascoltare il discorso: Address to Joint Session of Congress, 25 May 1961.

Big Science: così la corsa alla Luna ha inventato la scienza moderna

Con un totale di diciassette missioni il programma Apollo (1961-1975) è costato ai contribuenti statunitensi circa 25 miliardi di dollari. Vi hanno lavorato 60mila scienziati e 400mila tecnici e dipendenti. Nella seconda metà del Novecento, la ricerca è diventata definitivamente una filiera programmata, organizzata e finanziata pubblicamente. Questa impostazione, battezzata “Big Science” dal fisico Alvin Martin Weinberg, per la prima volta in un articolo di «Science» nel 1961, non solo ha dimostrato di essere efficiente dal punto di vista tecnico ma anche dal punto di vista economico: i grandi investimenti in ricerca scientifica creano ricchezza. Secondo i calcoli della Nasa, ogni dollaro speso nel programma Apollo ne ha generati tre. In che modo? Un conto fatto ancora dall’ente americano mette insieme più di 30mila oggetti e 20mila brevetti direttamente o indirettamente derivati dal progetto di conquista dello spazio, tra il 1961 e il 1975. Un esempio su tutti: i cuscinetti ad aria, inventati per ammortizzare gli urti nei caschi degli astronauti, riutilizzati dalla Nike per le sue scarpe, tra i più grandi successi commerciali di sempre.
Da allora il modo di fare scienza è rimasto “Big”: pensiamo al Progetto Genoma Umano, piano da tre miliardi di dollari che, all’inizio degli anni 2000, ha portato alla decifrazione di tutti i geni del DNA, generando una miriade di conoscenze che hanno prodotto a loro volta reddito, dal campo biomedicale a quello chimico, passando per tutte le applicazioni nell’ingegneria. La ricerca scientifica quindi è un investimento molto redditizio ma con risultati a lungo termine. Ne sono consapevoli i governi dei principali paesi industrializzati, dagli Stati Uniti alla Cina, passando per l’Italia e gli altri stati europei tutt’ora coinvolti nell’obiettivo dichiarato di esplorare il pianeta Marte con equipaggi umani entro questo secolo.

Bibliografia

R. Bassoli e F. Ungaro, La Luna d’ottobre. Quando lo Sputnik cambiò il mondo, Avverbi Edizioni, 2007.
V. Bush, Science. The Endless Frontier. A Report To the President, Washington, U.S. Government Printing Office, 1945.
G. Caprara, Il libro dei voli spaziali, Garzanti, 1984.
J. Gagarin, Non c’è nessun Dio quassù. L’autobiografia del primo uomo a volare nello spazio, Red Star Press, 2013.
S. Pivato e M. Pivato, I comunisti sulla luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa, Il Mulino, 2017.

 

Marco Pivato, chimico farmaceutico, è giornalista scientifico freelance e scrittore. Si occupa prevalentemente del rapporto tra scienza, politica ed economia per il quotidiano La Stampa. Tra le principali pubblicazioni su questo tema: Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta (Donzelli, 2010), I comunisti sulla luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa (Il Mulino, 2017), Usare il cervello. Ciò che la scienza può insegnare alla politica (La nave di Teseo, 2018).