A partire dal Concilio Vaticano II sempre più si è fatta strada, all’interno del mondo cattolico internazionale e degli stessi organi della Chiesa, la convinzione che il pacifismo universale e l’azione non violenta rappresentino valori peculiari della fede cristiano-cattolica. Sul piano propriamente storico, tuttavia, va detto che ancora davanti agli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale la teoria sociale cattolica poggiava sulla plurisecolare concezione nota come dottrina della “guerra giusta”. Diventato papa nel ’39, durante il conflitto Pio XII mostrò di interpretare la guerra come un flagello causato dall’apostasia della società moderna dagli insegnamenti religiosi e invitò i credenti all’obbedienza e al compimento del dovere nei confronti della patria.
Introduzione
«Ai nostri tempi e nelle nostre regioni non compete affatto ai semplici soldati o agli ufficiali inferiori giudicare circa la liceità o l’illiceità della guerra; è infatti del tutto impossibile al privato individuo conoscere tutti i motivi che indussero la cosiddetta diplomazia nazionale a intraprendere una guerra. (…) Dunque praticamente ogni soldato o ufficiale subalterno può sospendere il suo giudizio in ordine alla giustizia o ingiustizia della guerra e, se è costretto alla guerra, può andare al combattimento senza alcuno scrupolo di coscienza1.»
Come mostra questo passo di un importante manuale di teologia morale pubblicato nel 1928, la posizione della chiesa cattolica nel periodo tra le due guerre rimaneva saldamente ancorata alla sua tradizione plurisecolare. La chiesa regolava sul principio di presunzione l’obbligo dell’obbedienza indiscussa all’autorità politica in caso di conflitto militare: era cioè possibile ragionevolmente presumere che solo i governi possedessero le informazioni necessarie per decidere sulla necessità di una guerra e quindi spettava ai credenti semplicemente compiere il proprio dovere, sia assolvendo gli obblighi di leva, sia combattendo in guerra. È vero che in virtù di ciò che era accaduto con la Prima guerra mondiale alcune correnti e singoli intellettuali del mondo cattolico avevano avviato una riflessione di segno diverso, ma questo processo era ben lungi dall’essere generalmente condiviso. Ancora agli inizi degli anni trenta, autorevoli esponenti del clero e della gerarchia episcopale avevano confermato che, per quanto la coscrizione obbligatoria rappresentasse una conseguenza dei mali del mondo moderno, essa era legittima perché lo stato aveva il diritto naturale di preparare la sua difesa; anche in caso di guerra non difensiva, il singolo non poteva sottrarsi ai suoi obblighi, perché senza disciplina sarebbe stata minata qualsiasi forma di convivenza ordinata. Nell’allocuzione natalizia del 1930 Pio XI aveva spronato all’impegno per la pace, ma mettendo in guardia dal pacifismo sentimentale, confuso e non privo di pericoli. Di fronte ad alcune interventi favorevoli al disarmo totale, l’”Osservatore romano” precisava nel 1932 che finché la minaccia comunista restava attiva all’interno delle singole nazioni ed esportabile internazionalmente da uno stato armato, il disarmo incauto poteva rappresentare un fattore di violenze e conflitti ben peggiori2. In generale negli anni trenta, anche a causa del fallimento della conferenza sul disarmo organizzata dalla Società delle Nazioni, gli episcopati nazionali non si discostarono dal tema della moralizzazione dei conflitti e della centralità degli interessi nazionali. In occasione della guerra per la conquista dell’Etiopia, il gesuita Antonio Messineo su “Civiltà cattolica” aveva mostrato che poiché la Società delle Nazioni non aveva la forza per far rispettare le sue decisioni, erano gli stati a dover promuovere relazioni di giustizia tra popoli: nel caso dell’Italia fascista, l’abolizione della schiavitù da una parte e il bisogno di uno sbocco per la pressione demografica interna dall’altra, costituivano elementi sufficienti perché la guerra fosse ritenuta giusta.
La posizione di Pio XII di fronte alla guerra
Dalla fine degli anni trenta, però, la situazione cominciò a mutare. In Pio XI stavano maturando forti preoccupazioni per la trasformazione dei nazionalismi in visioni religiose alternative a quelle della fede. Dopo il generale consenso dato alla guerra coloniale, nei cattolici italiani si registrava una progressiva presa di distanza dal fascismo, responsabile, in particolare, di aver voluto l’alleanza con la Germania nazista. Nella Mit brennender Sorge (1937) papa Ratti criticava duramente il regime tedesco, con la sua tendenza a costituirsi in una religione nazionale, e nella cosiddetta “enciclica nascosta”, dedicata all’unità del genere umano, il nazionalismo veniva bollato come «una vera perversione dello spirito» e si affermava apertamente che fomentare negli animi le tendenze al nazionalismo era un atto criminale.
Tuttavia, la progettata enciclica non si concretizzò prima della morte del papa e non fu ripresa da Pio XII3. Anzi, si può dire che il nuovo papa da subito scelse di muoversi seguendo gli orientamenti che la Santa sede aveva sviluppato durante la Grande guerra, piuttosto che quelli più recenti maturati dal predecessore, mantenendo cioè una posizione di equidistanza dalle parti in contrasto e svolgendo un’intensa attività diplomatica a favore della mediazione possibile: cosa che consentiva peraltro alla chiesa la possibilità di rivendicare la propria superiorità rispetto ai contendenti e quella di operare liberamente a sostegno delle popolazioni in guerra. Durante l’estate del ’39, nella crisi di Danzica, papa Pacelli ribadì la condanna morale della guerra e lavorò intensamente alla ricerca di una soluzione politica, arrivando a fare pressioni sulla Polonia perché adottasse un atteggiamento più conciliante rispetto alla Germania pur di evitare lo scontro. Fino alla primavera del ’40, inoltre, il papa coltivò la speranza che l’Italia potesse rimanere fuori dal conflitto, inviando il 24 aprile di quello stesso anno anche una lettera a Mussolini perché fosse evitata la tragedia al paese. Dopo un grande lavorio diplomatico, davanti allo scoppio del nuovo conflitto mondiale papa Pacelli ribadì la neutralità della Santa Sede e accentuò la lettura della guerra come un flagello causato dall’apostasia della società moderna - e dei governi - dagli insegnamenti religiosi. Era una ripresa del tema della guerra come segno del castigo divino sull’immoralità dei popoli europei, che era stato dominante durante la Grande guerra: immoralità rappresentata da ciò che si definiva statolatria liberale, laicismo, culto della scienza e del progresso, materialismo e ateismo. Queste tesi furono ribadite nel radiomessaggio natalizio del 1942, in cui il papa sottolineava che gli sconvolgimenti in corso trovavano la loro radice nel lungo processo di secolarizzazione avviato in sostanza dalla Rivoluzione francese. Per questo la guerra finiva per avere una valenza provvidenziale nella misura in cui poteva produrre un ristabilimento del corretto rapporto tra chiesa e governi, verso i quali il papa confermava la disponibilità a mediazioni diplomatiche. Nei discorsi ai dirigenti dell’Azione Cattolica fino al 1943 papa Pacelli ribadì che essi erano tenuti a una coscienziosa obbedienza alle autorità civili, pronti a dare anche la vita per amore della patria; e come già al tempo della Grande guerra, questa posizione consentiva alle chiese nazionali e ai fedeli impegnati negli opposti schieramenti di giustificare la propria partecipazione, nell’attesa che il conflitto stesso mostrasse i disegni provvidenziali e portasse ad un nuovo ordine cristiano della vita sociale nazionale e internazionale. Non a caso nel radiomessaggio pasquale del 1941 il papa aveva reso omaggio a quanti combattevano con intimo senso del dovere per la difesa e la prosperità del proprio paese e aveva indicato nel trattamento delle popolazioni il criterio per valutare la condotta militare di una nazione.
In questo dualismo rappresentato, da una parte, da un intenso lavoro a favore delle vittime della guerra e a difesa dei perseguitati e, dall’altra, dall’ancoramento alla dottrina della guerra giusta, si dipanò l’azione di Pio XII nel corso del conflitto: prevalse cioè l’esigenza della prudenza politica e mancò invece, come molti hanno sottolineato, una solenne denuncia pontificia dei crimini del nazismo in guerra.
Il mondo cattolico italiano di fronte alla guerra
In generale, il mondo cattolico italiano nei confronti della guerra voluta dal regime manifestò un atteggiamento non univoco e chiaramente legato all’andamento del conflitto stesso. L’Azione Cattolica scelse perlopiù di privilegiare la riflessione e l’azione sul piano religioso-umanitario, anche se non mancarono posizioni che esprimevano un cattolicesimo più apertamente filo-nazionalista (ad esempio, la rivista “Segno dei tempi” o “Il Frontespizio” di Piero Bargellini). Il clero, inoltre, nelle realtà locali, dove da sempre la chiesa occupava uno spazio che non era solo di natura religiosa, raramente prese posizioni di aperta contrarietà all’autorità; anche se va detto che il richiamo ai valori della tradizione religiosa svolse un ruolo via via sempre più importante nel riorientare molti italiani ad uno sguardo critico verso il regime.
La maturazione di forme consapevoli di dissenso venne accelerata dalla situazione politica e militare creatasi con la crisi del 25 luglio 1943 e poi l’Armistizio; alcuni settori della curia romana non furono anzi estranei all’operazione che aveva portato alla nascita del governo Badoglio. Sostanzialmente favorevole al nuovo governo, la Santa Sede non diede mai alcun riconoscimento ufficiale alla repubblica Sociale italiana. Tuttavia, il nuovo fenomeno della guerra partigiana suscitò in primis un atteggiamento di prudenza e anche di ostilità all’interno della chiesa, preoccupata di evitare la spirale delle rappresaglie, ma anche di scoraggiare forme di ribellione o vendetta, individuale o di gruppo: si legga a questo proposito la lettera emanata il 4 dicembre del ’43 dal vescovo fiorentino card. Elia Dalla Costa, che appunto condannava il ribellismo e raccomandava umanità e rispetto verso i soldati e comandi tedeschi. Mentre riprendeva un fitto lavoro di analisi e dibattito sui temi della dottrina sociale, in molti ambienti intellettuali cattolici nel ’44 si giunse ad un chiaro mutamento delle posizioni della gerarchia cattolica nelle zone dell’Italia occupata, con la condanna della violenza nazi-fascista e la decisione di provvedere all’assistenza religiosa all’interno delle forze partigiane.
Note
1. Dominicus Maria Prummer, Manuale Theologiae moralis secundum principia S. Thomae Aquinatis in usum scholarum. II, Friburgi, Herder, 1928, p. 123 citato in Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna 2008, p. 78.
2. (G. Dalla Torre), Armi e disarmo, “L’Osservatore romano”, 7 aprile 1932, cit. da Menozzi, p. 120.
3. Sul tema mi limito a segnalare i contributi di Georges Passelecq, Bernard Suchecky, L’enciclica nascosta di Pio XI. Un’occasione mancata dalla Chiesa nei confronti dell’antisemitismo, Milano 1995.